Ricordo con precisione dov’ero e cosa stavo facendo quando i miei nonni e le mie nonne, ogni tanto, uno alla volta, morivano. Ci hanno messo vent’anni ad andarsene tutti, eppure ho ben chiaro nella mente ognuno di quei quattro momenti. Ricordo l’aria pesante, il silenzio, la voce monocorde che annunciava la notizia al telefono, quando ero già un adulto che lavorava fuori e non poteva più guardare la morte coi propri occhi, al capezzale di un letto. Di questo dolore naturale e complessissimo parla Alessio Forgione nel suo terzo romanzo Il nostro meglio, che vede il ritorno di Amoresano, protagonista di Napoli mon amour (NN, 2018), e di Maria Rosaria, personaggio secondario in Giovanissimi (NN, 2020). Risulta più chiaro, alla luce del nuovo libro, come Forgione non si stia limitando, negli ultimi anni, a raccontare storie ambientate a Napoli e in cui Napoli, sempre, si confronta coi personaggi e col loro vissuto; pur non ambendo alla creazione di una saga, l’autore va componendo un mosaico, i cui tasselli sono indipendenti l’uno dall’altro e liberamente selezionabili dal lettore. Mentre nel primo romanzo Amoresano ci veniva presentato al compimento dei trent’anni, i capitoli de Il nostro meglio oscillano nel tempo e ci propongono il protagonista settenne, nel 1994, e quasi ventenne, nel 2006. In entrambi i momenti della sua formazione, viene approfondito il rapporto con una figura fondamentale per Amoresano, la nonna materna: descritta ancora nel pieno delle forze, mentre si prende cura del nipote, e alla fine della vita, in balia di cure debilitanti, della perdita progressiva delle funzioni vitali, causa involontaria del vuoto che inevitabilmente lascerà nei suoi familiari.
Un vuoto che Amoresano esperisce giorno per giorno, raggiungendo una profonda consapevolezza, sebbene poco più che adolescente e sebbene a più riprese, nel romanzo, si definisca una persona superficiale, dell’impotenza degli uomini di fronte al tempo che passa e tutto sovverte e trasfigura: «E penso anche – ci dice a un certo punto – che delle persone con cui passiamo il nostro tempo e con le quali parliamo, con cui facciamo un tratto di strada oppure tutto il viaggio assieme, ne vediamo soprattutto il profilo, perché siamo impegnati a controllare la traiettoria che percorriamo, e così facendo ci sfuggono le espressioni che passano sui loro volti, che sono un’altra grande fetta della storia». Una storia raccontata al presente, perché quando qualcuno che amiamo muore, muore ogni giorno e il quotidiano non è più tanto vivere in ciò che accade ma, piuttosto, attraversarlo. Se restiamo, allora, dobbiamo fare del nostro meglio per mettere ordine, come «quelli che rimangono quando la festa è finita e non c’è altro da fare se non pulire e ricordare»; nonostante la paura e forse la certezza che il dolore prevarrà su ciò che siamo stati e cambierà, inevitabilmente, anche noi.