“Oggi è il peggior giorno della mia vita”. “Il peggior giorno della tua vita finora”. Conoscete tutto questo fulminante scambio di battute. Il senso della vita concentrato in due righe, scarse. Il senso della vita che ci arriva dritto in faccia per voce di Homer J. Simpson, a correggere le sensazioni esistenzialiste di suo figlio Burt con una battuta lapidaria. Ecco. Giovedì sera l’avrei anche potuta riassumere tutta in quelle poche parole. Stavo a guardare X Factor con mia figlia Lucia, il resto della famiglia giustamente indaffarato in faccende più serie, qualsiasi siano, un guardare X Factor finalizzato allo scrivere poi le pagelle che trovate sempre qui su MOW, siate grati e vogliateci un po’ bene, quando, circa a metà serata, ecco apparire Laura Pausini sul palco. Uno dice, ok, il solito burlone che vuole dirci che è il peggior giorno della sua vita perché vede in tv la Pausini. Non esageriamo. Ovvio che sto parafrasando, giocando coi paradossi, portando agli estremi. Ma sentire dieci minuti di Laura Pausini che strilla come il capo ultrà arrampicato sulle transenne, spalle al campo di gioco, non è mai facile. Tanto più se lo fa su quello che dovrebbe essere il luogo più cool della musica pop in Italia, fatto che di per sé dovrebbe indurci tutti a ascoltare solo death metal agitando la testa e prendendoci a calci con gli anfibi, non fosse che anche X Factor non è da tempo quel che ci racconta, luogo di miserie (finanziarie, ormai non ci sono più neanche i balletti, oltre che i producer e il resto, fra un po’ ci chiederanno di fare colletta, e artistiche, questo credo dal lontano 2009), portando lì il suo carico di tamarraggine, perché puoi anche rivestire a nozze uno spaventapasseri, ma sempre uno spaventapasseri resterà.
Il fatto è che a un certo punto, e giuro che in quel preciso momento mi è tornato in mente quello scambio di battute uscito da The Simpsons, il film, Bart legato a un lampione dal commissario Winchester, sprovvisto di pantaloni e mutande, Homer che lo va a prendere portando con sé solo una maglietta di ricambio, finita l’esibizione, quando cioè uno pensa di averla sfangata, anche se ci vorranno mesi di psicoterapia per rimuovere tutto questo dai meandri del cervello, ecco che la Michielin, che arriva a sua volta sul palco urlando come una pazza, porta con sé un vinile e un un cd, chiaramente l’ultima fatica della Pausini medesima. Un attimo di angoscia mi attraversa, perché non è pensabile che tutto questo, il suo essere lì in un contesto che fino a due anni fa le avrebbe sputato metaforicamente in faccia (ora X Factor è roba di Warner Italia, Warner Italia che a differenza della Sony, per altro vai a capire la differenza, ci lavora praticamente il 90% di quella che fino a ieri era Sony, da che Pico Cibelli, ex Sony è diventato il numero uno lì, Warner Italia che a differenza della Sony, dicevo, userà evidentemente il programma per fare pubblicità ai propri artisti, pensa te che roba), un attimo di angoscia mi attraversa, perché non è pensabile che tutto questo, il suo essere lì in un contesto che fino a due anni fa le avrebbe sputato metaforicamente in faccia, sia casuale, tanto più in presenza di vinili e cd. Comunque, ecco che, strillando come a una fiera paesana, luogo dove entrambe del resto potrebbero evidentemente trovare risposta alla propria poetica, non basta chiamare lo stylist giusto per passare per quel che non si è, e non si leggano queste mie parole come snob o metropolitane, vengo anche io dalla provincia come loro, solo che non mi fingo altro da quel che sono, comunque la Michielin, strillando come a una fiera paesana dice, parola più parola meno, che a mezzanotte uscirà Anime Parallele, il nuovo attesissimo lavoro di Laura Pausini, il primo di inediti dopo cinque anni. Ecco, è in quel momento che l’Homer che è in me è risalito su, come un fiotto di vomito che, per quanto ci si sforzi, non riusciamo a trattenere, metafora che riguarda il mio non riuscire a trattenermi, appunto, ma che potrei anche usare per chiudere questa recensione, fosse questa una recensione. Comunque, sì, non solo mi sono sorbito Laura Pausini che urlava sue vecchie e nuove canzoni a X Factor, e so che sono vecchie e nuove solo perché quelle vecchie sono sempre le stesse, non è che abbia poi tutte queste hit, per quanto ce la si racconti, e quelle nuove devono giocoforza essere le altre, ma mi tocca anche recensire il suo nuovo album, vista la presenza di fisico potrei anche dire disco. E qui già c’è un chiaro segnale, la Pausini, consapevole che finirà prima la settimana prossima nella classifica FIMI, non ci sono competitor di grido, anche se l’arresto di Shiva farà sicuramente impennare i suoi stream, ma che consapevole anche che la cosa durerà poco, oggi la musica è in mano ai ragazzini che ascoltano dal cellulare, e i ragazzini dal cellulare non ascoltano mica questa donna di mezza età che pensa che farsi scrivere le canzoni da Madame o Riccardo Zanotti, titolare di due singoli usciti nell’ultimo anno, basti a ringiovanirla, parlo di musica, non di chirurgia estetica, sia chiaro, consapevole di tutto questo ha tirato fuori copie fisiche nella speranza che lo zoccolo duro dei suoi fan, comunque uno zoccolo duro esteso, acquisti compulsivamente, tenendola in piedi, santa pazienza.
Uno dice, ok, bene, ci stai girando intorno. E quindi. Quindi il disco si chiama Anime Parallele, ha la copertina che mostra una strada, ce lo dice lei a X Factor, e ce la fa vedere la Michielin, sedici persone su quella strada, tante sono le canzoni del disco, diciotto nella versione Deluxe, che suona un po’ come una condanna a morte, e ogni persona porta un singolo oggetto con sé, perché passiamo tutti sulle stesse strade, ma siamo persone diverse, viva la diversità, questo il punto. Concetto detto un po’ meglio del “Il disco si chiama Simili perché le canzoni sono tutte come noi umani, non uguali, ma simili, con due braccia, due gambe, due occhi, simili, appunto”, dichiarazione dell’epoca, il virgolettato è in realtà una rilettura mia a vostro beneficio delle sue parole dell’epoca, dal resort di Miami dove lo presentò, era il 2016, che mi fece scrivere una recensione che titolava “A questo punto potevi intitolarlo A cazz* di cane”, e ditemi voi se non avreste tutti comprato un disco della Pausini che si intitolava A cazz* di cane, io continuo a pensarla così. Bene, una cosa la condivido con la Pausini, la diversità è un valore, difendiamolo. Detto questo il disco ha sedici canzoni, sedici, scritte, oltre che dal già citato Zanotti, che è bravo bravissimo, da Tommaso Paradiso con Dardust, dall’amico di sempre Biagio Antonacci, dal redivivo Daniel Vuletic, dai soliti, perché presenti ovunque, Federica Abbate, Katoo, Paolo Antonacci, Alessandro La Cava, Cheope, che domani sarà con me a Aversa al Premio Bianca D'Aponte, vi saluta tutti, Iacopo Ettorre, Davide Simonetta, tutta gente che scrive per chiunque, da Mengoni a Annalisa, passando per davvero chiunque, un ritrovato Alessandro Raina, Edwin Roberts, che spesso scrive per lei e Niccolò Agliardi, che di Laura Pausini è stato a lungo autore principe, talentuoso che per anni ha dovuto tenere il suo talento frenato per scrivere quelle robacce per lei, stavolta presente in un solo brano. Questo ci dice Google, Laura Pausini e Paola Carta a firmare molte canzoni, così, tanto per.
Sedici canzoni che fingono di essere contemporanee, cioè flirtano con suoni che oggi potremmo scambiare, per distrazione, coi suoni che ascoltano i giovani, ma che nei fatti sono poco più che il vestito a nozze dello spaventapasseri di cui sopra. Musica fuori tempo massimo, che poi basterebbe dirle, Laura, tesoro, ma perché ti ostini a fare musica nuova, che tanto fai tour in giro per il mondo, certo, in quella parte di mondo nella quale il tuo stile non elegantissimo viene apprezzato, è vero, ma comunque parecchio in giro per il mondo, e lì la gente vuole sentire sempre quelle canzoni lì, La solitudine… La solitudine, insomma, ci siamo capiti, invece no, tiri fuori un disco pretenzioso, con un sacco di collaborazioni, di autori di grido, e in bocca a te suonano tutte come La solitudine, solo meno efficace, perché non hai sedici anni, la faccia di chi ancora si sorprende di fronte a un palco, e comunque, diciamocelo, anche quando avevi sedici, diciassette, quanti ne avevi, non è che brillassi proprio per eleganza, avevi quella canna che hai anche oggi e come oggi la usavi per incrinare bicchieri e coglion*, i miei, solo che allora me lo tenevo per me, oggi lo scrivo. E lo scrivo di getto, subito, un veloce ascolto su Youtube, perché ascoltandolo con calma nulla cambierebbe, ritengo la tua musica il corrispettivo sonoro di quei tagli che ti fanno certi fogli affilati quando li prendi tra le dita per il verso sbagliato, tagli su cui incautamente getti limone e peperoncino, volendo anche la soda caustica. Un ascolto professionale? No, perché per quanto non mi possa lamentare non vengo pagato abbastanza in questa vita per rovinarmi anche solo un’ora ascoltando con attenzione musica che, in un mondo non dico giusto ma decente, neanche dovrei sapere che è uscita. E in effetti non lo avrei saputo, che sarebbe uscita, se non fosse per X Factor, maledetti, perché Goigest, l’ufficio stampa che la segue da sempre e che mi manda quotidianamente mail per mettermi a conoscenza delle uscite cui stanno lavorando, per l’occasione deve avermi tolto dalla mailing list, nessuna informazione pregressa, nessun invito alla conferenza stampa, se c’è stata, ma suppongo che essendo a Milano c’è stata o ci sarà, niente di niente. Per la cronaca, tanto per evitare di sentirmi dare del rosicone perché non sono stato invitato, non ho perso più di un’ora a ascoltare su Youtbe Anime Parallele, disco che, lo avessi fisicamente tra le mani, userei per togliere la brina nelle prossime settimane dal vetro della macchina, figuriamoci se avrei perso tempo per andare a una conferenza stampa dove, oltre che ascoltare le sue banalità riguardo il valore della differenza, avrei anche dovuto vedere i tanti colleghi che la ascoltano a quattro zampe, ricordiamo che ai tempi di Simili, sempre lì, lei pagò il viaggio a Miami a sei di loro, tre dei quali si fecero il noto selfie a bordo piscina, finendo in un mio altro articolo nel quale li chiamavo, a ragione, The Pool Guys, al secolo Luca Dondoni, Paolo Giordano e Andrea Laffranchi, al momento impegnati nel podcast Pezzi-dentro la musica, incredibilmente non registrato in pareo e infradito, ecco, Dio me ne scampi e liberi. Su questo pure credo siamo d’accordo, oltre che sul valore della diversità, magari espresso in maniera un po’ meno basica, meno ci si vede meglio è per tutti, parlo di noi, non di tutto il mondo. Questo in sostanza, questo che state leggendo, e uso il maschile perché no, non è una recensione, e no, non è un articolo, è un pezzo, così si chiamano i testi scritti da chi non è giornalista, sia mai, questo in sostanza, è un po’ un Superclassico, ma ahimé, nulla ha a che vedere con Real Madrid-Barcellona, quanto piuttosto con quella robaccia di Ernia, una ruffianata per compiacere il pubblico, nel caso specifico suppongo più chi legge me che chi ascolta la Pausini. Un pezzo immancabile, che finisce forse per essere scontato quanto la musica che intende criticare. Perché, a dirla tutta, il disco della Pausini, alla fine, com’è? Un disco della Pausini. Appunto. Un disco della Pausini che non si intitola A cazz* di cane, un’altra occasione persa.