Le parole di Gabriele Tinti, poeta e critico d’arte italiano, sono un planare sulla parte più intima della nostra anima, fatta di manie e debolezze che disperatamente nascondiamo al mondo “normale”, con o senza buoni risultati, e che vivono insite nel nostro essere. Misteri, angoli nascosti, desideri proibiti, incubi perenni, sogni inconfessabili. Le opere di Tinti sono molto più di magistrali testi di cui goderne la lettura. Sono il riflesso vivido ed elegante di ciò che in fondo ci fa più paura: noi stessi. Detto anche “poeta delle statue” grazie ai testi da lui composti ispirandosi alla statuaria classica (Il pugile a riposo, Il Galata suicida, il Fauno Barberini, Il Discobolo e molto altro) la sua tendenza a dar voce a muti, fantasmi, oppressi e disperati è disseminata in ogni sua composizione, tra le quali spicca in tal senso Last Word, un lungo e doloroso poema che raccoglie le ultime parole di persone comuni prima del loro suicidio, e All Over dove i versi narrano di eroi (pugili in questo caso) sul calar della loro esistenza. L’umanità raccontata da Gabriele Tinti è quella dell’infinita sofferenza, dell’immane fragilità dello stare al mondo, delle sconfitte piuttosto che le vittorie; le sue parole sono quella parte di noi che affiora, silenziosa e malconcia, sul far della notte o nel bel mezzo di un mezzogiorno. Ed ecco che tutti ci scopriamo mostruosi, intendendo con tale parola l’essere “fuori dall’ordinario”. Tutti ci confrontiamo con il nostro essere di passaggio, con la vacuità e la disperazione dell’essere umani.
Di recente uscita, a fine 2020, la sua nuova raccolta di poesie in collaborazione con l’artista Roger Ballen, fotografo statunitense, per i tipi di Powerhouse Books (New York): The earth will come to life and feast è il titolo. Tornando al paragone iniziale tra un passante qualunque e una finestra appena illuminata di un appartamento sconosciuto, con quest’ultima opera di Gabriele Tinti non ci si limita più a sbirciarvi all’interno: si detengono anzi le chiavi, per entrare all’interno della capanna fortificata del nostro essere profondo. O almeno, nella prima stanza.
Parliamo di 63 componimenti a fronte di 63 fotografie a creare un teatro di umanità disperata: d’altronde, morte e dolore sono il fulcro della produzione letteraria di Tinti. I suoi versi sono veri come un incubo dal quale ci svegliamo sudati, forti come un’amara verità da scoprire, angosciosi come la vita intera di un disgraziato o di uno sconfitto.
In The earth will come to laught and feast frammenti, poesie e storie brevi rivelano figure disperate, ossessive, deformi ed emarginate a volte raffigurate nella loro interezza altre volte ancora tramite porzioni di mani, piedi e bocche. Ci sono oggetti, parti di bambole, manichini, luoghi desolati.
Che sia la sofferenza di esistere, forse, un dolore da accettare completamente? Ne ho parlato con l’artista, in un botta e risposta caratterizzato principalmente da tre elementi: morbida cortesia, riservatezza cristallina ed un deciso quanto intenso calibrarsi di frasi. Un intercedere misurato all’interno del quale, ad alcune domande, Gabriele Tinti ha preferito non rispondere e in fondo va bene così. Con un poeta, d’altronde, potrebbe mai essere altrimenti?
In The earth will come to laugh and fest, l’unione tra le foto dell’artista Roger Ballen e le parole delle sue poesie danno vita a una combinazione che sembra nata per porre chi legge al centro del labirinto della sua mente: è bene trovare la strada per uscirne o imparare al contrario a rimanervi, come simbolo di un dolore senza fine e di un inevitabile tormento esistenziale?
"Ogni volta che si prende in mano un libro come questo immagino la tentazione del lettore di girare pagina, di liberarsi da questi versi. Il problema è stare con essi, raccoglierne la sfida ed entrare a contatto con ciò che comunemente rifuggiamo. Le immagini di Roger così come la mia poesia provocano sempre una risposta. Un qualcosa che sconcerta e dunque muove una reazione".
La morte è il cardine dell’opera, così come dell’intera sua poetica. Perché questo tema? Parlarne è forse modo per difendersene, allo stesso modo secondo il quale per non aver più paura di un nemico occorre conoscerlo fino in fondo, o c’è dell’altro?
"Tutto quello che c'è al mondo di fondamentale è connesso alla morte. In fondo non c’è davvero altro su cui scrivere".
In uno dei testi si legge: “Anni di sacrifici per un ridicolo carme urlato agli animali” (Entwined). Il senso della vita, dunque, è solo morire?
"Credo sia imparare a farlo".
The Earth will come to laught and feast mette in scena una rappresentazione dei nostri angoli più reconditi e disperati. Segreti, paure, smanie, incubi perenni. Il ruolo della morte è ormai chiaro. Eppure, guardando gli scatti e leggendo le parole a fianco ci si sente colpiti anche da una enorme quantità di vita. Quanta voglia di esistere – se esiste - pulsa all’interno di un’opera come questa?
"Sì, è un libro che canta la vita perché è pieno di fiducia nelle parole e nelle immagini. Ho questa ossessione di prendere il linguaggio sul serio: di provare intolleranza per l’abuso che se ne fa, per la sua banalità".
Parando di fiducia, mi viene in mente la parola “fede”. Che mi porta, per naturale associazione, al termine “religione”. Per molti la fede, intesa come confessione religiosa, è spesso un valido appiglio alla sofferenza, di cui come abbiamo visto The Earth will come to laught and feast molto racconta. Esiste un Dio, o una divinità o come dir si voglia, in un’opera come questa così come nei suoi scritti?
"Per i Greci il divino era ciò che ci circonda, quel che viviamo e respiriamo. “Tutto è pieno di dei” era quello che pensava Talete. Noi però siamo rimasti senz’occhi per vedere e senza voce per cantare. Siamo entrati nel territorio dell’artificiale dove quel rapporto con il divino non esiste più".
“La terrà verrà a ridere e banchettare”: un titolo profetico, vista la situazione attuale. Anche se ho letto di quanto lei “disprezzi il presente ricercando l’antico”, le chiedo se può un’opinione sul mondo di oggi. Su questa modernità fatta di social e apparenza, dove dietro lo scintillio dei filtri Instagram e della folle ricerca della perfezione, si celano spesso insicurezza, disperazione, depressione. Come dicono gli anziani, anch’io le chiedo: “dove andremo a finire?”
"Hai ragione. Scrissi The earth will come to laugh and feast due anni prima della pandemia. Nasce dalla mia personale attrazione per la terra piuttosto che per il cielo. Il suo odore, il calore in certi punti, in certi mesi, le spaccature, le sue aperture…tutto porta alla terra. D’altronde, noi siamo terra, fatti di terra, in attesa di tornare lì da dove siamo venuti. La vita in fondo non è nient’altro che quest’attesa: questo desiderio, questa paura".
La risposta di Gabriele Tinti a questa domanda si ferma qui, alla spiegazione del titolo dell’opera. Sul presente visto attraverso la lente dei social network ha preferito non esprimersi, limitandosi ad un “preferisco non parlare di ciò che conosco poco”.
Ho provato dunque ad aprire la porta dell’interpretazione del presente passando da un ingresso meno principale, come a usare una porticina sul retro sperando di non essere scoperta.
Cosa significa oggi, essere un poeta?
"Sono creature tragicomiche che cercano di salvarsi e di sconfiggere il tempo con la parola, le immagini, il proprio corpo. Il verso non starà in piedi se dietro non c’è una qualche personalità, un vuoto da riempire".
Siamo oggi sempre più avvezzi ai fatti che ci circondano e che vediamo al telegiornale: siamo anestetizzati alla brutalità, al macabro e alla violenza. Con la tecnologia, poi, la sofferenza viene spesso mostrata senza remore: cosa ne pensa della sacralità del dolore?
"La tecnologia attraverso i suoi schermi mostra e allontana. Un tempo si moriva nel corpo a corpo, in modo violento; nelle arene per secoli il dolore è stato spettacolarizzato e cantato. Nonostante le differenze sostanziali tra “ieri” e “oggi” sarà sempre il momento in cui si prova dolore quello capace di ricondurci alla realtà. È lì che ci costruiamo, cominciamo a vedere davvero".
Molte delle sue poesie sono state lette da personaggi famosi. Se immaginasse recitare le poesie di The Earth will come to laught and feast, le immaginerebbe urlate o bisbigliate appena? I suoi testi sono inoltre sempre corredati di traduzione inglese: quale lingua, tra quest’ultima e l’italiano, risuona maggiormente nella sua pancia?
"Le poesie di questo libro le ha lette Abel Ferrara. Ne ha fatto una lettura intima, potente nella semplicità. Lui rappresenta il mio lettore ideale. Per la lingua, bè: io scrivo in italiano, quindi è naturale che sia quello il mio orizzonte. Devo dire però che acquisendo la mia scrittura ogni volta la forma dell’epigramma, dell’elegia, del frammento, mi piace sentirla leggere in inglese, nel modo che gli interpreti di quella lingua hanno di fare densità attorno a certe parole e idee".
Conoscere le opere di Gabriele Tinti è sorprendente. Si ha voglia di saperne di più. Sulle sue composizioni, sulle sue idee, sulla sua personalità. Così, per comprendere da dove e da cosa nascono nella sua mente i testi che ci troviamo a leggere. Da qui, un paio di domande personali.
Che bambino e che ragazzo è stato, e che uomo invece è oggi? Jep Gambardella ne “La grande Bellezza” diceva che fossilizzandosi sull’odore delle case dei vecchi capì che voleva fare lo scrittore: lei quando ha capito che voleva essere un poeta e quando invece che esserlo era davvero diventato possibile?
"Quando ho ricevuto apprezzamenti da parte di artisti che amavo molto e con i quali ho poi collaborato come Malcolm McDowell, Andres Serrano, Kevin Spacey, Abel Ferrara. Sono sempre gli altri che ti nominano in un certo modo e permettono di riconoscerti. Naturalmente tutto nasce dal fatto che devi essere tu il primo a chiamare te stesso nel modo che ritieni più giusto. Che tu sia poeta o artista devi credere in quello che fai. E questa fede è sempre tragicomica".
Su chi fosse da ragazzo e chi oggi da uomo, nessuna menzione. Tornarci sopra, non mi è sembrato giusto. Come quando trovi una porta con scritto “riservato-non entrare”, che tuttavia è appena socchiusa. Potresti aprirla allungando la mano, ma la richiesta di non farlo ha la meglio sulla curiosità, non volendo oltrepassare un limite che (oggi ed in questa occasione, non dico sempre) non è stato dato superare.
Come ultima domanda, però, una virata al timone. O forse no.
Cos’è l’amore per Gabriele Tinti?
"È equivoco, fantasia, contraddizione, necessità, altezza, profondità, morte, fantasia, pericolo, dimenticanza, difesa, rinuncia, arma, incantamento, preghiera, scambio, sospiro, inganno, mistero…"
L’artista, con le sue risposte, ha lanciato dei semi di riflessione. Sta a noi adesso, piantarli ed innaffiarli. Con cura e sorpresa, mentre torniamo a sfogliare il suo libro, scapparvi, riprenderlo tra le mani e tentare di capire ciò che, in fondo, non è da comprendere. Solo osservare.