Torna il Premio Tenco. Di più, torna il Premio Tenco al suo cinquantesimo compleanno. Sarebbe da scriverne, raccontandone la storia, l’evoluzione o involuzione, punti di vista, arrivando fino a questa edizione, coi suoi premiati, i suoi ospiti, gli artisti premiati con le Targhe Tenco. Già spiegare la differenza tra Premio Tenco e Targhe Tenco meriterebbe un approfondimento, cinquant’anni o non cinquant’anni. Del resto prima dell’estate ne ho parlato, eccome se ne ho parlato, ottenendo in cambio post infamanti sui social. Post che neanche facevano il mio nome o quello di questo magazine, come direbbe Manzoni per voce di Don Abbondio, “il coraggio se uno non ce l’ha mica se lo può dare”. Per questo, non solo per questo, ma anche per questo, ho deciso di non spendere parole per parlare del Premio Tenco, non di questo Premio Tenco qui, dedicando le righe che seguono, invece, a artiste che un premio lo meriterebbero anche senza andare a mangiare in campagna con qualche membro di un direttivo, promettendo di tornare a occuparmi del Premio Tenco quando finalmente farà un repulisti, tagliando i rami secchi e estirpando la gramigna, così che il nome di Tenco e quello della musica d’autore sia finalmente onorato. Detto che domani sera, per chi si trovasse a Milano, sarò alla libreria Colibrì per presentare il libro "Corso Trieste" di Piotta, il cui ‘Na notte infame è stato appunto al centro di tanto parlare, e detto che sono assai felice per le Targhe che premieranno gli ultimi lavori di Paolo Benvegnù e di Simona Molinari, rispettivamente Miglior Album in Assoluto e Miglior Album da Interprete, non mi fossero arrivati addosso gli schizzi di fango di certi post di orsacchiotti che finiscono per diventare gattini da tastiera, inconsapevoli che ci sarà in fondo un motivo se alla fine dell’anno si trovano a fare il 730 da professori delle scuole medie mentre io mi trovo a fare l’Unico come critico musicale, passo a parlare di cose serie, che fortunatamente di musica interessante in giro ce n’è parecchia, quasi mai intercettata proprio da chi si piccherebbe di vivere per questo. Parto da Beatrice Antolini, e so di dire l’ovvio, ma anche il suo nuovo lavoro, giunto al diciottesimo compleanno della sua virtuosa carriera, "Iperborea", è un diamante che andrebbe esibito quantomeno nelle giuste situazioni, se non addirittura ogni giorno. La polistrumentista e cantautrice marchigiana di stanza a Bologna, infatti, passando per la prima volta in pianta stabile all’italiano, decide di alzare il tiro, se possibile, visto quanto mostrato fin qui, andando a collezionare una tracklist nella quale è praticamente impossibile scegliere cosa sia meglio e cosa sia peggio, perché il peggio non c’è. Un inno reiterato alla non omologazione, al sacrosanto diritto e dovere di ragionare con la propria testa e col proprio cuore, dove la musica è suonata, seppur non si sa bene perché venga spesso descritta come elettronica, a volte addirittura orchestrale. Una magma di ispirazione che si traduce in una carrellata di pugni alla figura, non la nostra ma quella di un sistema nel quale la Antolini in fondo si trova a vivere, ma che non la vede indubbiamente rassegnata a farlo. Con un alternarsi di scenari quasi fatati, ascoltare “Farsi raggiungere” per credere, a altri decisamente più rocciosi, in questo caso “Trionfo e rovina” è forse il brano simbolo, Iperborea si dimostra il lavoro maturo di un’artista matura, capace come pochi di spaziare nella sperimentazione, a volte anche in quella di difficile comprensione per chi nel mentre si è lasciato analfabetizzare dal pop nostrano, con una perizia tecnica che per altro ha pochi eguali in quella che qualcuno chiama la musica leggera. L’idea di uscire con il fisico quasi un mese prima dello streaming, e presentando il tutto dal vivo a inizio ottobre al MEI, un concerto con un pubblico all’asciutto da tutte le nuove canzoni fino a quel momento, ci dice altro su questa artista incredibile, spigolosa e al tempo stesso sinuosa. Dovessi indicare due brani, e non vedo perché dovrei farli, ma mi vado sempre a impiccare da solo, indicherei senza dubbio la wagneriana "Iperborea" e la malinconica "L’arte dell’abbandono", dove quel che ho scritto fin qui è assai spiegato meglio.
E visto che si parla di alternatività, al mainstream e anche a ciò che appunto chi si occupa di musica d’autore sembra faticare a decifrare, forse proprio perché si affida a chi invece dovrebbe preparare in casa le lezioni per il giorno dopo, altro che musica d’autore, ecco una seconda proposta, Dada Sutra e il suo splendido esordio sulla lunga distanza che porta il titolo di "Questo amore mortale" (che poi sarebbe il titolo dato al noto murales comparso su quel che resta del Muro di Berlino, con Breznev che bacia in bocca un altro politico di cui al momento mi sfugge il nome). Berlino, del resto, è presente in questo album d’esordio, preceduto da un EP e da una manciata di singoli, non solo nel titolo del brano Berlino Est, uno dei più evocativi della covata, ma più in generale in queste atmisfere distopiche e vagamente notturne che si susseguono per tutto il lavoro, assolutamente di altissimo livello. Dovessimo inquadrare infatti Dada Sutra, e anche qui, non vedo perché dovremmo farlo, ma tant’è, la vedrei bene a tavola con quel che resta dei CCCP, che se non ho capito male finito il tour si sono di nuovo sciolti, ma anche con la Kim Gordon solista, magari anche con qualcosa del vecchio Nick Cave. Musica notturna, disturbante, dove per disturbante si intende atta a mettere fascinosamente a disagio l’ascoltatore, come ci si sente quando si è messi a conoscenza di qualcosa di intimo, e al tempo stesso di segreto, di oscuro. Canzoni costruite intorno a una voce che si dimostra centrata e matura nonostante la nostra sia appunto alle prime mosse nel campo del cantautorato, e portate avanti senza fare troppe concessioni al pop, anzi, nessuna. Sentite la già citata Berlino Est, ma anche la conclusiva Zocatecas, Diva o i tre brani che portano i primi tre numeri romani per titolo. Provate a non sentirvi poi, in qualche modo, sorpresi nel voler conoscer di più di Dada Sutra, come se la si fosse spiata in un sordido Peep Show di Amsterdam, i sensi di colpa anestetizzati dal freddo là fuori. Un noise rock assolutamente di primo livello, quello di "Questo amore mortale", che ci regala un nome da tenere ben a mente se si vuole poter parlare con competenza della musica d’autore italiana nel 2024. Già che mi trovo, così, lo dico a chi ha ambizioni spesso più alte delle proprie capacità ma si alambicca nella volontà di canonizzare la forma musica d’autore, appunto, le cantautrici, oggi come oggi, stanno dicendo cose assai più interessanti dei cantautori, forse sarebbe il caso di prenderne finalmente atto.
Chiudo, ma qui sto guardando decisamente in avanti, parlando ancora una volta di chi ha da poco vinto Music For Change, il contest organizzato da Gennaro De Rosa per Musica Contro le Mafie, a Cosenza: Acquachiara. Una giovane cantautrice romana che ha convinto buona parte della giuria di esperti, diciamo almeno quelli che erano lì per un senso, e che, toh, ha visto proprio chi lì si trovava in rappresentanza del Tenco dirle che non gli era piaciuto il suo essere poco diretta rispetto al tema affrontato nel brano, “Piacere, Sofia”, una splendida canzone che alterna terzinato a ritornello in cassa dritta, con alcune asperità musicali disseminate lungo il percorso proprio per simula l’incedere faticoso della protagonista, una disabile, perfettamente raccontato proprio per quel non star lì a fare disegnini e didascalie, la musica d’autore, Santo Iddio. Forse il tizio avrebbe preferito qualcosa dal titolo “Noi handicappati”, invece che questa delicata e al tempo stesso disturbante power ballad sempre in bilico tra emozione e voglia di riscatto. Acquachiara è un nome da segnarsi da qualche parte, già a breve la si potrà votare nella seconda parte del contest, quella che vedrà gli otto finalisti giocarsi una seconda vittoria negli ascolti in streaming (a partire dal 22 novembre), un’altra artista che ci dice quanto il cantautorato femminile sia oggi più libero di quello maschile, forse per l’agio che l’essere costantemente tagliate fuori dalle classifiche e anche dai premi come le Targhe Tenco offre loro, non avendo le gabbie della contingenza da rispettare possono osare di più e stupire di più. Quindi, riassumendo, andatevi a ascoltare "Iperborea" di Beatrice Antolini, "Questo amore mortale" di Dada Sutra e, appena possibile, quel che potete di Acquachiara. Per tutto il resto c’è l’inutile vociare di chi si crede stocaz*o e al massimo lo si potrebbe catalogare come stocazzet*o.