Dici “Carlo Lucarelli” e subito la mente corre a vari termini, tutti legati tra loro dal filo nero del lato oscuro dell’animo umano: “delitti”, “misteri”, “serial killer”. Quella di Lucarelli con il noir è un’associazione forte tanto quella che Morgan ha con il concetto di “inaffidabilità” o Fabrizio Corona con quello di “problema giudiziario” (coincidenza sinistra per restare in tema horror: poco dopo aver scritto queste righe sono incappato in una storia di Instagram dove Fabrizio Corona ospitava Morgan a casa sua: entrambi stavano chiamando Vittorio Sgarbi che era arrabbiato con Draghi per il fatto di aver usato troppe volte il termine “resilienza” nel suo discorso).
Nato a Parma nel 1960, in trent’anni di carriera che spazia dalla narrativa alla televisione passando per cinema e radio, Lucarelli è assurto al ruolo di figura cardinale nell’universo del “giallo” italiano già a partire dal suo primo successo letterario, quel “Almost Blue” del 1997 che metteva già perfettamente in luce le sue indubbie qualità da narratore: una grande padronanza della materia unita a una non comune sensibilità e attenzione nei confronti dei risvolti psicologici di vittime e colpevoli, un punto di vista emotivo e personale che permette al lettore di immedesimarsi e porsi interrogativi. Le stesse qualità le porta in televisione quando in Rai compare il programma per cui è diventato più noto e ricordato: Blu Notte. La sua capacità di raccontare le pagine più oscure della cronaca del nostro paese formulando ipotesi, tratteggiando profili comportamentali dei protagonisti dei “fattacci” ma anche narrando con vividi particolari i luoghi in cui avvengono, descritti nella duplice accezione di teatro della tragedia e scenografie di vita quotidiana, trasformano il docu-crime in vera e propria narrazione sociale.
Dopo tanti programmi importanti (La Tredicesima Ora, Muse Inquietanti, Profondo Nero, Inseparabili) il suo stile diviene paradigmatico, avvolgente nella forma e appagante nei contenuti, come quello di un Federico Buffa che invece che parlare di sportivi opta per la cronaca nera nella maggiorparte dei casi (Inseparabili trattava l’affascinante tema delle vite all’ombra del genio, personaggi sconosciuti che hanno avuto un ruolo chiave nella vita di personaggi di grande successo). Quando scopro che la sua ultima fatica, trasmessa su Sky Arte dal 15 febbraio, avrebbe scandagliato l’universo magico e sinistro delle fiabe popolari non potevo non nutrire delle aspettative. Aspettative che si sono rivelate ovviamente ben riposte. “In compagnia del Lupo: il cuore nero delle fiabe” affronta in 8 puntate racconti che da bambini ci siamo sentiti ripetere migliaia di volte, sviscerandone però gli aspetti più inquietanti, sinistri e affascinanti. Ma non si ferma qui: Lucarelli affronta la genesi di ogni mito popolare contestualizzandolo nell’epoca che lo ha prodotto, raccontandone risvolti inediti della genesi, spesso legata alle vite dei loro autori. Scopriamo così che Cappuccetto Rosso ha origine dall’ossessione francese per la licantropia e un terribile fatto di cronaca, Peter Pan riflette il frequente fenomeno delle morti premature dei bambini dell’’800, "Il Piccolo Principe” nasce da una straordinaria vicissitudine di Saint-Exupery, mentre il personaggio di Barbablù, l’uomo che uccideva tutte le mogli che si rivelavano disubbidienti, è modellato sulla vita di Gilles de Rais, serial killer vissuto in Francia nel 1400. L’analisi delle fiabe non è cosa nuova. Già nel 1928 a Leningrado il linguista e antropologo russo Vladimir Propp pubblica “Morfologia della Fiaba”, libro che estende l’approccio formalista russo a tantissime fiabe di origine e cultura diverse, indivuduando i tratti comuni comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno gli stessi personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo svolgimento della storia. Propp individua una serie di costanti che chiama funzioni che si ritrovano in ogni fiaba (allontanamento, divieto, infrazione, tranello, lotta, salvataggio) che sono svolte dai personaggi tipo (l’eroe, l’antagonista, il donatore, il mandante, la principessa, etc.). Un lavoro importantissimo che getta le basi della semiotica narrativa (che ancora usiamo per analizzare mass media e forme artistiche) e che influenza le ricerche di intellettuali del calibro di Claude Lèvi-Strauss e Roland Barthes. Ovviamente uno dei grandi pregi di Lucarelli è quello di essere straordinariamente pop e divulgativo, lasciando allo spettatore il piacere di immergersi nell’ambiguo mondo delle fiabe popolari senza eccessivi fardelli accademici. Me l’ha confermato anche Antonio Monti, amico, regista e fedele collaboratore di Carlo, in una bella chiacchierata a tre.
Perchè le fiabe?
Carlo Lucarelli: "Il nostro gruppo di lavoro stava pensando a un nuovo programma, stavamo buttando delle idee sul tavolo come facciamo sempre quando un mio amico, Mauro Smocovich, che se ne stava occupando, propose le fiabe. A questo punto la domanda che ci siamo posti è stata: perché no? Le fiabe sono bellissime, sono piene di cose. La sfida è stata quella di raccontarle da un altro punto di vista, il più bello ma per certi versi anche il più scontato: il punto di vista noir. Sotto però c’è anche qualcos’altro: un’analisi, una messa in scena dei tempi in cui sono state scritte (non è un caso se si codificano così), della personalità dei loro autori, che spesso avevano vite più fiabesche delle opere che li hanno resi celebri e di tutta una serie di elementi per cui leggi una fiaba di moltissimi anni fa e ti ritrovi davanti a meccanismi e movimenti del cuore umano e della società di oggi".
Pensi che il tuo stile di narrazione applicato a temi di presa meno immediata rispetto ai classici casi di cronaca a cui ci hai abituato sia più difficile da digerire per lo spettatore?
Antonio Monti: "Mi permetto di rispondere io: nessuno è più pop di Carlo, è pop per natura. Riesce a essere divulgativo anche parlando di cose altissime".
Carlo Lucarelli: "Ai vecchi tempi, nei nostri primi programmi, ci veniva chiesto di spiegare le cose nel modo più semplice possibile perché nonostante tutto la tv era ancora percepita come un mezzo prevalentemente d’evasione. Io però devo dire la verità: noi arrivavamo lì e raccontavamo anche cose intricate, complicate, come Sindona, Piazza Fontana e la mafia nel modo che ritenevamo più giusto, nel nostro modo, e alla gente piaceva moltissimo. Quindi forse credo che la tv di oggi potrebbe permettersi anche un pò più di coraggio, perché poi la nostra è una tv che quando vuol far le cose le fa e il pubblico risponde. Vi ricordate il vecchio Vajont di Paolini (si tratta di “il racconto del Vajont”, un monologo teatrale di Marco Paolini sull’omonima tragedia andata in onda il 9 ottobre 1997 in diretta su Raidue; per l'occasione fu allestito un teatro proprio presso la diga del disastro, nda)? Solo a proporla a un produttore televisivo oggi si verrebbe cacciati a pedate. Paolini lo fa, lo fa bene e tutta l’Italia è attaccata alla tv. Qual è il problema? È che dopo di cose analoghe non se ne rifanno".
Anche la confezione de In Compagnia del Lupo è degna di nota. Lucarelli, un incrocio fra Hitchcock di Hitchcock Presenta e un frate trappista (risate, nda), si muove fra le quinte di un bellissimo teatro mentre racconta le fiabe che prendono vita attraverso il sapiente uso di belle illustrazioni animate.
Antonio Monti: "Le location sono in realtà due, mescolate insieme per avere unità di luogo: una è a Padova ed è il Teatro Anatomico di palazzo Bo (del 1594, il più antico del mondo, nda), dove cioè venivano fatte le autopsie ed è un luogo che mi ha colpito, sembra una specie di Inferno dantesco solo tutto di legno. L’altro è il Teatro Valli di Reggio Emilia per il quale abbiano scelto di girare nelle zone “di servizio” (sottopalco, camerini, etc.). Il palco è stato utilizzato solo per le interviste agli ospiti. Ci piaceva che quello che Carlo racconta, i risvolti sconosciuti delle fiabe, avvenisse in uno spazio fisico “dietro” al teatro stesso. Le animazioni sono una novità rispetto agli altri programmi di Carlo: la casa di produzione, lo Studio Tiwi, è specializzata in animazioni e grafica e ci ha proposto per rappresentare la parte più immaginativa, contrapposta all’aspetto biografico e sociale della sua genesi".
C’è una fiaba a cui siete particolarmente legati e vi colpì vividamente da bambino?
Carlo Lucarelli: "Ce ne sono due. Una mi terrorizzò al punto che la rimossi completamente ad eccezione del titolo, che incredibilmente è l’unica cosa che ricordo: “La grotta dei bambini di pietra”, che già detto così…".
Si, direi che siamo dalle parti di Lucio Fulci.
Carlo Lucarelli: "Sicuro devo la mia formazione a quella fiaba anche se non me la ricordo. La seconda è Cappuccetto Rosso. Mi ha sempre colpito per via della struttura narrativa quasi perfetta: la bambina, il bosco, il lupo".
Antonio Monti: "Io avevo un libro illustrato Disney della storia di Ichabod Crane, da cui è tratto il film La Leggenda di Sleepy Hollow. Mia mamma me lo leggeva sempre".
Qual è il potere che la fiaba esercita ancora oggi sullo spettatore secondo voi?
Carlo Lucarelli: "La fiaba ha un potere sullo spettatore adulto notevole, ti trasporta in un altro mondo facendo leva sulla nostalgia, ha senza dubbio un potere minore su quei bambini leggermente più grandi di tre o quattro anni se la chiami “fiaba”. Le mie bambine hanno 9 anni e se gli dico “vi faccio leggere una fiaba” insorgono dicendo che quelle sono robe da piccoli. Ma poi magari leggono un’altra cosa che ha la stessa struttura narrativa, gli stessi archetipi, le stesse situazioni, tipo Harry Potter, e se ne sparano 500 pagine. Alla fine si tratta spesso di modernizzare certi linguaggi. Il potere della fiaba è quello: mettere in scena un meccanismo “vero”, che appartiene al reale, in modo affascinante".
Anche se uno degli aspetti più classici e inverosimili delle fiabe è il lieto fine, “e vissero tutti felici e contenti”, Disney docet.
Carlo Lucarelli: "Ma quella del finale rassicurante è un’invenzione relativamente recente. La maggiorparte delle fiabe tradizionali non finiva così, non vivevano tutti felici e contenti, anzi, era spesso una strage (risate, nda). Nella versione di Cappuccetto Rosso che hanno visto le mie bambine in tv il lupo diventa vegetariano. Non gli succede niente. Le fiabe sono lo specchio del tempo in cui viviamo e sono tempi sempre più politicamente corretti, dove vivono sempre tutti felici e contenti. Ma è un’illusione. Prima le fiabe erano lo specchio di come andavano le cose nel mondo. E le cose finivano male. Ai bambini si raccontavano per dirgli “hai visto cos’è che succede, come va a finire, se disubbidisci o fai troppo lo spavaldo?”.
Antonio Monti: "Carlo aggiungo che la tua disamina mette in luce la vera natura della fiaba, una natura che spogliata di tutti gli aspetti “rassicuranti” è ancora attualissima nonostante sia vecchia di cento anni. Nella puntata dei Fratelli Grimm, che racconta le figure femminili sembra tutto contemporaneo: scopriamo che le principesse non vivono affatto aspettando il principe azzurro e basta".
Carlo Lucarelli: "Esatto, quella è un’eredità di Disney che ha preso le fiabe, ne ha fatto dei cartoni (bellissimi) ma che riflettevano l’idea dei tempi in cui sono stati realizzati. Cenerentola ci sembra una che per tutta la vita non aspetta altro che sposare il principe azzurro, che già comunque se la leggi in qualche modo è una forma di emancipazione perché poveretta stava sempre chiusa in casa. Nella realtà la sua fissazione è quella di andare al ballo, che è una cosa molto diversa: è divertirsi, è realizzarsi. Del principe non gliene frega un granché, certo alla fine il bonus è che diventa regina. Ma tutto questo lo fa per lei, per sfuggire dalla povertà e per avere una vita migliore. Insomma è una distinzione che la rende molto diversa dalle principessine classiche".
In ogni puntata è presente un ospite che integra la spiegazione della fiaba. Tutti gli ospiti provengono da aree professionali molto diverse tra loro. Com’è nata questa scelta?
Carlo Lucarelli: "Abbiamo avuto antropologi, filologi della fiaba, scrittori (come Simona Vinci e Paola Baraldi, nda) che da sempre si muovono in quell’ambito e poi altri professionisti che apparentemente non c’entrano nulla ma che poi raccontano cose interessanti. Per esempio nella seconda puntata parlando di Saint-Exupery che ha l’ansia di volare, di partire, di decollare, abbiamo intervistato un pilota, che ci ha spiegato molto bene cosa significa 'staccarsi da terra'”.
Di questo programma c’è anche un podcast, ed è la prima volta, giusto?
Antonio Monti: "Si, è nato per volontà di Tiwi per spostare il racconto su altre piattaforme ma non è una semplice trasposizione del programma in versione audio: è proprio una totale riscrittura degli stessi temi delle puntate".
La parola “Lucarelli” è diventato ormai sinonimo di “noir”. Come nasce questa associazione?
Carlo Lucarelli: "Da tante cose bellissime che ho letto e ascoltato da piccolo e che parlavano di misteri. C’è un bravissimo giallista del passato, Augusto de Angelis, il cui personaggio, il Commissario De Vincenzi, si metteva a pensare “ma in fondo chi se ne frega del movente, dell’assassino, dell’arma usata, della giustizia? L’unico grande mistero che ci interessa è quello del cuore umano. A me interessano i suoi meccanismi oscuri. Perchè la gente a volte finisce per fare cose brutte. E mi piace perché posso raccontarlo in un certo modo: non dicendo tutto subito, enunciando i fatti, raccontando la cornice, procedendo piano piano. E’ proprio come succede nelle fiabe. Non andare nel bosco: e lei va nel bosco. Non parlare col lupo: e lei parla col lupo. E poi che succede? Risate".
Quando avete pensato a In Compagnia del Lupo avevate in mente un certo tipo di pubblico?
Carlo Lucarelli: "È una cosa a cui sinceramente non penso mai. E’ una cosa che i televisivi si chiedono, e hanno ragione di chiederselo. Ma quando facevo Blu Notte tutti quelli della tv mi dicevano che il mio pubblico era essenzialmente composto da trentenni laureati del nord. Io pensavo: ah si? Strano, io spesso incontro persone che mi guardano anche diverse. Poi ho scoperto che le mie più gradi fan erano Nilla Pizzi e Wilma De Angelis, due signore meravigliose che hanno fatto la storia della televisione italiana (e avevano oltre un secolo di vita in due) che mi si sono attaccate alla giacca a tempestarmi di domande. È stato bellissimo".