No, non siamo tutti fotografi. Questa è la grande menzogna a cui abbiamo creduto stando su Instagram. Martin Parr invece era un genio. Ne abbiamo parlato con un fotografo come Fabrizio Spucches. Quale foto di Parr rappresenta l’Italia di oggi? E la politica nel nostro Paese? “Forse non è giusto dire solo che ci sono foto alla Martin Parr, perché lui è dappertutto”, perché è il mondo che “in realtà è una sua foto”. Spucches ci ha risposto su tutto, dall’incontro con Parr (e la foto pubblicata in copertina da Le Monde), le somiglianze con Oliviero Toscani e ciò che rimane del trash.
Fabrizio, i social ci hanno dato l'illusione che potevamo essere tutti Martin Parr. È davvero così?
Si dice che molte sono foto “alla Martin Parr”, no? Questo succede ai grandi. Federico Fellini disse di aver sempre sognato di diventare un aggettivo: felliniano. Questo succede a coloro che influenzano l'evoluzione della società. Martin Parr sicuramente è stato uno di questi. Tanti si ispirano a lui, me compreso, non lo nego, è uno dei miei massimi punti di riferimento. Su Instagram ritroviamo i soggetti e i temi che affrontava, compresa l’apatia da social, che lui aveva previsto. Prendendo un esempio: i selfie stick. Anni fa erano un’ossessione. Parr aveva già capito che erano una cosa da raccontare.
Dalle opere di Parr emerge più il lato ironico rispetto a quello critico, eppure le due cose non possono essere scisse. Pensiamo ai lavori sulle spiagge di Liverpool.
Questa è la sua forza: rappresentare un'ironia tragica. Perché dietro quella apparente banalizzazione, quel senso di ironia che ti porta a ridere, si nasconde molto altro. Tutti noi ci rispecchiamo nelle foto di Martin Par, e alla fine anche lui stesso è entrato a far parte del grande gioco.
Cosa intendi?
Forse non è giusto dire solo che ci sono foto alla Martin Parr, perché lui è dappertutto. Il mondo in realtà è una sua foto. Prima ho visto un signore con i capelli col riporto portati via dal vento; qui ce n’era un altro seduto, sembrava disperato, esausto della vita, fermo lì ad aspettare di morire: questi sono scenari da Parr. Ci ha fatto fare i conti con la condizione umana del nostro contemporaneo.
Una sua foto che rappresenta l'Italia in questo 2025?
Darò una risposta un po' estrema, forse. C’è una foto di una coppia di anziani seduti in un bar, uno di fronte all'altro, lei guarda giù, lui è distratto. Si sono abituati all’indifferenza, vivono tanto per vivere. I soggetti sono vecchi, ma dentro ci si possono rivedere anche i giovani. Credo sia dovuto anche alla pandemia. Molti si sono persi il momento più importante della loro vita, con l'adolescenza rubata, gli anni in cui si forma la tua personalità, in cui inizi a decidere cosa sarai.
E quella generazione in che immagine vorresti che si identificasse?
Nella signora che prende il sole, tutta abbronzata, con gli occhiali Gucci. Non è una questione di età, ma di spirito. Da una parte il vivere la vita tanto per, dall'altro lato invece vivere come si deve. Sono molto fiducioso, perché ho avuto modo di confrontarmi in quest'ultimo periodo con molti ragazzi giovani: hanno le idee chiare.
Il momento politico italiano in una foto di Martin Parr?
Facile questa: la foto di quel sedere coperto da un costume a stelle e strisce. In quelle mutande americane c'è tutto: il capitalismo, il buon costume, la borghesia di oggi. Stanno addosso a un uomo grosso, probabilmente stanco, che si accontenta. Ce n’è un’altra, in cui una coppia si tiene per mano, sempre con addosso dei costumi con la bandiera americana: anche qui c’è il senso della famiglia, del genitore 1 e 2, messi in una spiaggia popolare.
Siamo arrivati alla saturazione del trash o nel trash c’è ancora un potenziale artistico?
Probabilmente siamo arrivati a saturazione, ma io personalmente la cavalco. Quindi ben venga, perché comunque è molto divertente.
Nella foto che hai fatto a Martin Parr, che è finita su Le Monde, qual era l'elemento che volevi cogliere e che non poteva mancare?
Mi interessava farlo diventare il soggetto di una sua fotografia. Nella vita sembrava un “umarell”, aveva quella faccia, quegli occhiali, quello sguardo che creavano proprio un cortocircuito. Sembrava un geometra o un avvocato. Dietro quella apparente banalità c'era il genio.
In quale lavoro trovi che ci sia la sintesi di questa genialità?
Negli autoritratti fatti in giro per il mondo, andava che so in India, in America, dove ha scattato la foto di lui nella bocca dello squalo, faceva questi autoritratti anche con se stesso, mettendosi in discussione, guardandosi allo specchio. Sono piccoli esperimenti nei quali in maniera molto generosa si è lasciato coinvolgere. Tutti i grandi sono così. Anche Oliviero era così: persone che quando le chiami rispondono.
Il primo incontro con Parr?
Col mio studio Cucu stavamo curando la parte di comunicazione per la sua mostra al Mudec di Milano. Lui stava già molto male, tutti dicevano che sarebbe stato meglio fargli fare il meno possibile. L'ho conosciuto al momento dell’inaugurazione. Avevo visto le previsioni del tempo, avrebbe piovuto, quindi un altro ostacolo. Però sappiamo bene che la pioggia è uno dei soggetti dei suoi scatti: il cielo coperto è come un errore, perché “deve” essere azzurro, non nuvoloso. Mi sono fatto coraggio, lui non mi conosceva neanche, vado da lì al firma copie e gli chiedo: “Domani pioverà, in piazza Duomo ci saranno molti piccioni, tantissima gente e un fotografo del Bangladesh con una barba arancione. Posso farti un ritratto?”. Lui dice di sì ed ecco la foto, che poi è andata in copertina su Le Monde e sull’Observer.
L’estetica dell'imperfezione rischia di diventare un cliché a sua volta?
La vita è un'imperfezione, un grande errore, è una cosa bellissima ma poi si muore. È l'errore più grande e ingiusto. Martin Parr, tutto sommato, è stato un grande umarell con la macchina fotografica. Ha fatto un grande reportage sull'errore della condizione umana. Eppure il suo lavoro dà un senso di ottimismo e di speranza incredibile. Questo per me è il grande valore della sua fotografia.
Siamo ancora in grado di ridere di noi stessi?
Perché no. Le possibilità sono due, non ci sono mezzi termini: o si piange o si ride. A noi la scelta.
È più facile far ridere o far piangere con la fotografia?
Sicuramente è più facile far piangere. Veicolare il senso di una tragedia attraverso una foto è più comune. Stupire come Parr è cosa da geni.
Un elemento del suo lavoro che ti ha segnato particolarmente?
Lui è di una coerenza incredibile. Nella sua diversità, nel suo essere eclettico, comunque, c'è una coerenza disarmante. Dalla prima all'ultima foto c’è un filo conduttore, le puoi mescolare e fanno tutte parte di un grandissimo progetto molto coerente.