Chi era Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino di famiglia ebraica nato a Berdyčiv nel 1905, che abbiamo imparato a conoscere solo in anni recenti grazie all’editore Adelphi? Era un tecnico, un ingegnere chimico uscito dall’Università Statale di Mosca, che durante la Seconda guerra mondiale seguì per quasi tre anni l’avanzata delle truppe sovietiche fino in Germania, come corrispondente del quotidiano dell’esercito Krasnaja Zvezda (Stella Rossa), documentando i crimini e gli orrori dell’aggressione tedesca. Nell’agosto del ‘44 entrò con le avanguardie sovietiche nel campo di sterminio di Treblinka, da cui iniziò il lavoro sul Libro nero del genocidio nazista: da qui viene il tema della persecuzione degli ebrei che avrebbe permeato i suoi due grandi romanzi, Stalingrado (Za pravoe delo, “Per una giusta causa”) e Vita e destino (Žizn’i sud’ba). Quando, in seguito alla campagna antisemita della Russia staliniana fra il 1949 e il 1953, Grossman prese coscienza della ferocia del regime sovietico e vide traditi i suoi ideali, si trovò fatalmente in dissidio e cadde in disgrazia. Il dattiloscritto di Vita e destino – prosecuzione ideale di Stalingrado, che già era stato criticato per mancanza di ortodossia ideologica – venne subito preso in esame dal Comitato centrale del Pcus, e nel febbraio del ‘61 due agenti del KGB ne sequestrarono le copie e le carte carbone, oltre alle minute e ai nastri della macchina per scrivere. Vita e destino venne considerato più pericoloso del Dottor Živago, perché è un grandioso affresco storico che affonda in una dura riflessione sul male, sulla menzogna e sulla cancellazione della verità attraverso la mistificazione, al pari di quella che era stata la terribile esperienza nazista. Le stesse cose che vediamo oggi nella guerra di aggressione all’Ucraina, dove la Russia putiniana riafferma tutte le caratteristiche violente del passato, distruggendo, destabilizzando, avvelenando e falsificando quanto più possibile la realtà.
Stalingrado, appena edito da Adelphi e sempre tradotto da Claudia Zonghetti, è il poderoso romanzo-affresco su quella che fu la battaglia intorno alla città, vissuta da Grossman in diretta, e può essere considerato il “prequel” di Vita e destino. Ancora intriso della fiducia nella società sovietica, il romanzo riuscì ugualmente ad attirare forti critiche e sospetti, perché non ligio alla correttezza ideologica del regime. È qui che Grossman crea un grande dramma corale, una epopea fatta di persone, di storie, di passioni e di sofferenze, con una forza espressiva degna dei grandi romanzi dell’Ottocento. A sud del fronte orientale, tra i fiumi Don e Volga, i sanguinosi combattimenti fra l’Armata Rossa e la Wehrmacht per il controllo della città di Stalingrado ricordano proprio gli assedi di questi giorni, con i russi che radono al suolo la città ucraina di Mariupol, quasi sterminandone gli abitanti, per punirne l’accanita resistenza e mandare un messaggio definitivo all’Occidente. Nel 1942, la resistenza di Stalingrado porterà i russi alla controffensiva di novembre, che riuscirà ad accerchiare la Sesta Armata tedesca, costringendola alla resa. È lo scontro feroce tra i due grandi regimi totalitari del Reich e dei sovietici, dove i destini delle persone comuni sono i protagonisti assoluti: i soldati che combattono, gli ufficiali, le famiglie che soffrono, i medici e gli infermieri negli ospedali da campo, gli operai nelle fabbriche di armi e attrezzature. Le piccole storie s’intrecciano andando a costruire la grande Storia, fatta di vicende umane e rapporti interpersonali, di sentimenti, passioni, venture e sventure, in una narrazione che scorre salda e precisa, senza retorica. Lo spirito essenziale del racconto lo definì lo stesso Grossman: “In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa”.
Partendo dall’inizio, vediamo il riservista Pëtr Vavilov, in un giorno del 1942, seguire con lo sguardo la giovane postina che con un foglio in mano punta verso casa sua, per consegnargli il richiamo dell’esercito. Hitler e Mussolini hanno appena stabilito l’invasione della Russia: Vavilov guarda già con angoscia il distacco dalla moglie e dai figli, dalla sua isba e dalla sua dura quotidianità. “Quanto aveva sgobbato nella sua vita, e senza un attimo di requie! Non si era mai tirato indietro, Vavilov: sulle sue gambette storte, a quattro anni già badava alle oche, oppure cercava le patate nascoste e le aggiungeva al mucchio quando la madre le cavava. Con qualche anno in più lo avevano messo a pascolare le bestie, a zappare l’orto, a fare acqua, a legare il cavallo e a spaccare la legna, dopo di che era andato ad arare i campi, aveva imparato a falciare e a usare la mietitrebbia. Aveva fatto anche il carpentiere, sapeva montare i vetri alle finestre, affilare gli attrezzi e aggiustarli, e aggiustava pure valenki e stivali; scuoiava le pecore scannate e i cavalli morti, tingeva le pelli e le cuciva; e seminava il tabacco, e costruiva stufe. E aveva lavorato tanto anche per gli altri. La diga l’aveva tirata su lui nell’acqua fredda di settembre, lui aveva costruito il mulino, e aveva posato il selciato e scavato rogge, aveva mescolato l’argilla e spaccato le pietre per costruire il granaio del kolchoz e la stalla, e aveva anche preparato le buche per le patate del kolchoz. Per il kolchoz, poi, c’era anche la terra – quanta! – che aveva arato, e il fieno che aveva falciato, e il grano che aveva trebbiato, e i tanti sacchi che si era portato in spalla; e c’era il legname per la nuova scuola: quante querce aveva abbattuto e sgrossato, quanti chiodi ci aveva piantato dentro, e quanto aveva lavorato di scure, martello e pala. Si era fatto anche due stagioni alla torbiera, a cavare torba per tremila mattoni al giorno pranzando con un uovo da spartire in tre, un secchio di kvas e un chilo di pane, e con il ronzio delle zanzare della palude che copriva persino il rumore del motore”.
L’angoscia provata da Vavilov è emblematica, è il viatico per l’avventura di un popolo che reagisce all’invasione nemica. “Una cosa sola voleva Vavilov: restare a vivere lì, insieme ai suoi, nella legna con cui quell’inverno la moglie avrebbe riempito la stufa, nel sale con cui avrebbe insaporito le patate e il pane, nel grano che avrebbe portato a casa dopo una giornata di lavoro. Sapeva però che non era possibile, e che sarebbe stato nei loro pensieri e nei loro ricordi non nei giorni di vacche grasse, ma in quelli della carestia e del bisogno. Avrebbero pensato a lui vedendo la saliera vuota, andando a chiedere una misura di farina al vicino o un cavallo al presidente del kolchoz, così da attaccarci la slitta per fare legna nel bosco. ‘Finiremo le patate che non sarà ancora primavera. Finiremo tutto, anzi’ disse la moglie. ‘La legna, il grano, tutto finiremo. Giusto il dolore non finirà’”. Per capire la sofferenza di oggi in un Paese aggredito da una potenza espansionista, nell’area densa di violenza che è il settore orientale europeo, si può partire da questa storia, che ci prepara allo stesso tipo di guerra che credevamo superato e che invece è tornato a piombarci addosso. A pagina 59 sembra di leggere l’archetipo del gran parlare mediatico che ci sta sommergendo in questi giorni: “Perché arretriamo, dite? Fosse solo questo... Fate presto a parlare, voi, con i crucchi a duecento chilometri e le valigie già pronte! Quando quelli arrivano a Stalingrado, i pezzi grossi saranno già tutti a Taškent a riempirsi le budella. Lo sapete come funziona per noi, invece? Ti sdrai qualche ora, e quando ti svegli scopri che nella notte i crucchi hanno macinato un centinaio di chilometri verso est. Eh? Cosa mi dite adesso? Un conto è fare la guerra, un altro far andare la lingua. Ne ho visti di passacarte che se la danno a gambe al primo filo di vento! I nostri crepano prigionieri, e loro da Taškent gli puntano il dito contro. Vorrei vederli finire sotto assedio, io, quelli che puntano il dito. E vorrei vederli mezzo morti di fame a farsi marce da cinquecento chilometri per sfondare il fronte! Già me li immagino, i burocrati grassi e pasciuti, in fila per arruolarsi fra collaborazionisti e polizei! Chi è in prima linea ha un cuore! E vuole la verità vera!”.
Oggi le voci provenienti dall’Ucraina ci parlano delle città, come Mariupol, che avevano raggiunto un grado di modernità di tipo occidentale e che, come punizione esemplare per tutto il Paese che resiste, in poche settimane sono state annientate dalle bombe del neo-sovietismo putiniano. Allo stesso modo, Grossman afferma il valore della Russia del suo tempo, di cui si sentiva parte, sotto l’aggressione nazista: “La vita era in pugno a operai e contadini. Era nato un mondo nuovo di professioni e personaggi mai visti: pianificatori industriali e agricoli, agronomi, apicoltori, allevatori e orticoltori diplomati, meccanici dei kolchoz, marconisti, trattoristi, elettricisti, tutti col diploma. La Russia aveva raggiunto un livello di alfabetizzazione senza precedenti, paragonabile solo a un’esplosione solare di potenza astronomica; se la luce dell’alfabetizzazione che si era accesa in Russia avesse potuto essere tradotta in onde elettromagnetiche, nel 1917 gli astronomi delle altre galassie avrebbero registrato la nascita di una nuova stella che continuava tenacemente a dare luce”. Questo quadro ci fa capire la densità narrata in Stalingrado, la forza del racconto, la centralità dell’insieme di personaggi che si muovono in questo scenario assoluto. E vediamo anche il trauma dell’attacco nazista, il piombare degli aerei che sparano e bombardano, la violenza che esce dal confine dell’umano per diventare fuoco e acciaio che distruggono: tutto anticipa e riflette ciò che si prova oggi in Ucraina sotto la continua pioggia di missili che disintegrano i palazzi e uccidono le persone. È lo scenario che introduce l’epica della battaglia moderna, tracciata col vigore della grande narrativa ottocentesca ma con la tecnica fluente del mondo nuovo, rapida minuziosa e inarrestabile come la corrente di un fiume.
A pagina 110 abbiamo la descrizione quasi plastica della rottura di un’epoca e di un’umanità. “E proprio in quell’attimo di silenzio, con il muro del fogliame che gli nascondeva le fiamme e il fumo, Novikov ebbe la percezione lacerante, quasi intollerabile, di un cambiamento storico. Era la percezione di un movimento precipitoso, paragonabile forse a ciò che avrebbe provato chi all’improvviso avesse potuto sentire con la pelle, con gli occhi, con il protoplasma di ogni singola cellula la velocità terrificante della Terra nell’universo infinito. Era un cambiamento irrevocabile, e sebbene un solo, minuscolo millimetro separasse allora la vita di Novikov dalla proda salvifica delle abitudini precedenti, non c’era forza in grado di colmare quella frattura che cresceva e si allargava fino a misurare metri, prima, e poi chilometri... La vita e l’epoca che Novikov ancora percepiva fisicamente come il suo presente, dentro di lui e nella sua coscienza già diventavano passato, storia, ciò di cui si sarebbe detto: ‘Ah, così pensava e viveva la gente prima della guerra’. Intanto, da novità fosca che appena si intravedeva, il futuro era diventato presente, era già una nuova vita e un’epoca nuova. Pensò a Evgenija Nikolaevna, in quell’attimo, e capì che pensare a lei sarebbe stata una costante in quel qualcosa che era appena cominciato...”.
Con una narrazione così potente che attraversa quel Novecento fatale – Stalingrado seguito da Vita e destino – si potrebbe realizzare una magnifica serie televisiva, impiegando i mezzi appropriati e i giusti talenti, andando anche in profondità. Sarebbe una pietra miliare nella tradizione degli sceneggiati, che andrebbe a valorizzare un patrimonio di immaginario storico che resta enormemente attuale. La gravità di quanto sta accadendo in Ucraina, con tutte le sue conseguenze, sembra ancora poco percepita, trattandosi di un’improvvisa guerra totale che non riesce ancora a staccarci dalla realtà a cui siamo abituati. Combattimenti di uomini e mezzi corazzati come non si vedevano dai tempi della Seconda guerra, nelle stesse pianure e geografie, con lo stesso furore distruttivo e la stessa durezza degli scenari. Il mondo forse tornerà a spaccarsi in blocchi di globalizzazione competitiva, con l’industria bellica che ridiventa portante, gli odi e le divisioni culturali che si approfondiscono, i rapporti di forza e le alleanze che cambiano faccia. Si dovrà vedere chi arriverà a comandare l’economia, come cambieranno i rapporti politici e la diplomazia, come si svilupperà la guerra sotterranea per il controllo delle risorse, delle materie prime, della massa dei poveri schiacciata dalle cupole oligarchiche. Rivediamo Vavilov e la sua famiglia, e gli Šapošnikov, e gli altri personaggi che in questo romanzo fluviale verranno investiti dalla Storia, al pari delle grandi epopee: “...sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele a cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua”.