La guerra è una guerra vera: bombe, missili, carri armati, morti. Poi ce n’è un’altra, quella informativa, meno cruenta ma per certi versi non meno rilevante, perché incide sulla nostra percezione, sulla narrativa dei buoni e dei cattivi. Ne abbiamo parlato con Matteo Flora, esperto di reputazione e propaganda digitale, professore di CyberSecurity, curatore peraltro del canale YouTube Ciao Internet nel quale, tre volte a settimana, racconta come la rete ci cambia e nel quale, recentemente, spesso si è occupato di interpretare diversi aspetti comunicativi del conflitto russo-ucraino, un ecosistema nel quale perdersi è un attimo.
Hacker, infowar, cyberwar: ci aiuta a capire di cosa si parla?
Di cyberwar vera e propria ne abbiamo vista poca. Abbiamo visto una guerra cinetica, in cui esplodono cose, si lanciano missili, si uccidono persone: il ruolo della parte cyber, cioè del quinto dominio, in questo conflitto pare estremamente limitato, ma è importante perché in realtà il ruolo della cyberwarfare in questo caso è una parte che tradizionalmente chiameremmo psyop, psychologial operation, ciò che incide su parte psicologica: almeno per ora non si sono, ad esempio, affondate navi o uccise persone utilizzando il cyber, ci si è limitati a una guerra di informazioni, a bucare realtà rendendo indisponibili per la cittadinanza determinate informazioni, e a fare battage comunicativo.
Comunicativo o propagandistico?
Comunicativo, perché tutte le parti in gioco, ovvero Ucraina, blocco russo e blocco atlantico, stanno utilizzando pesantemente un’informazione basata sui social per fare appunto comunicazione, prima ancora che disinformazione. Questo è uno dei problemi: in questo conflitto abbiamo visto quanto centrale sia il ruolo dei social media per essere primo veicolo di informazione anche per la stampa, quella stampa che, a parte per pochi personaggi presenti fisicamente sul luogo e pochi reportage, si basa su quello che legge e che riesce a interpretare di ciò che c’è sui social. Questa è la premessa.
E cosa serve a spiegare?
Che il problema in realtà non sono mai state le fake news, quelle sono sempre esistite. Maria Antonietta che risponde, a chi le fa presente che il popolo non ha fame, di mangiare brioche, è una canard, non l’ha mai detto; il lascito del Sacro Romano Impero alla Chiesa cattolica è una falsità. Fake news, appunto. Ciò che è cambiato non è tanto la procedura con cui selezioniamo le informazioni - noi, gli organi di informazione, gli opinionisti - ma la maniera generale con cui riusciamo a verificarne l’autenticità.
Perché accade?
Perché i corpi intermedi, i gatekeeper che dovrebbero essere la stampa e i giornalisti, hanno perso quello che era il loro ruolo centrale. E lo hanno perso a ragione, andando a fare clickbait. Pertanto, ritornando alla domanda iniziale, la cyberwar viene usata tantissimo, più che per fare disinformazione, per fare misinformazione, cioè prendere fatti realmente accaduti e darne un’interpretazione differente. Ciò è messo in atto da tutti gli schieramenti ed è straordinariamente efficace perché colpisce il luogo deputato a fornirci le informazioni, che oggi come oggi è la rete.
Cosa stiamo imparando dal punto di vista informativo da questo conflitto e da come ci viene proposto?
È la prima guerra combattuta con i social e in cui le parti in causa mostrano una comunicazione attiva. Twitter è uno dei primi veicoli di informazione: abbiamo visto comunicazioni di vari esponenti dello Stato maggiore russo, abbiamo visto Zelensky, abbiamo capito che i social hanno un ruolo centrale, più dei comunicati ufficiali, più della stampa, perché sono più veloci e non sono intermediati. Abbiamo anche capito che siamo tristemente e desolatamente impreparati a gestire comunicazioni di questo tipo a questa velocità, il cui scopo è la misinformazione. E abbiamo risolto nel modo più veloce e più stupido: censurando gli organi palesemente pro-Russia, ma è giocare al gatto e al topo: abbiamo tolto gli avamposti, ma non riusciamo a togliere i battitori liberi. La soluzione a medio-lungo termine non può essere questa.
A breve funziona?
Le azioni fatte per bloccare gruppi e silenziare outlet sono state molto efficienti, perché è vero che si possono sempre ricostituire ma, come accade ai vari gruppi Telegram, se arrivo a un gruppo con centomila persone e lo rifaccio è raro che riesca a tornare ad avere le stesse centomila persone. Le operazioni di disinformazione e misinformazione del blocco russo sono andate avanti per anni e hanno preparato il terreno per qualunque tipo di visione del mondo che avevano deciso di veicolare: prima era l’antivaccinismo, ora l’antiatlantismo. Quindi sì, funziona, ma nessuno ha trovato il modo di “uccidere gli scarafaggi”, ammesso che esista.
Nella sua rubrica Ciao internet c’è un video particolarmente interessante sulla figura del professor Alessandro Orsini, entrato ormai nell’immaginario collettivo grazie al conflitto e sulla character assassination nei suoi confronti.
Le strategie di propaganda, per quanto complesse nell'estensione, sono estremamente semplici nel funzionamento. Di base ce n’è una: prova a convincerli tua visione; se non puoi convincerli, confondili; se non puoi confonderli, spaventali; se non puoi spaventarli, deridili. Più o meno abbiamo visto tutto questo nei suoi confronti. Come essere umani abbiamo un modo molto stupido per la costruzione di senso: in momenti di crisi selezioniamo come vera l’informazione più aderente alla realtà, quella che più si adatta ai nostri pregiudizi. Chiunque come lui arriva e complica lo storytelling finisce per aumentare in noi i dubbi sulla realtà che vogliamo.
Dagli Stati Uniti una figura che sembra non riuscire a imporsi, paradossalmente, è Biden.
Biden è un soggetto non carismatico come invece servirebbe in questo contesto. Del suo predecessore, Trump, si possono dire tante cose, probabilmente solo brutte e tutte a buona ragione, ma era comunque uomo di grande carisma, mentre Biden il carisma non riesce a focalizzarlo: è l’espressione di una parte liberal che ha grande consenso, ma in un momento come questo in cui “l’effetto alone”, quello secondo cui una cosa viene considerata vera perché la dice una determinata persona, è fondamentale, Biden riesce poco. Altri leader sono molto più credibili. Si sta attenti cosa dice Biden nel suo ruolo istituzionale, cercando di decodificare dalle sue affermazioni ciò che sarà il percorso militare e di azione degli Stati Uniti. Ma lui non riesce a polarizzare il suo seguito, non è una figura carismatica alla Trump o alla Obama.
Insomma: non sa comunicare?
C’è da dire che è un uomo di una certa età e di una certa caratura. Ha un modo di comunicare dello scorso millennio, e questo va preso in considerazione: fatta questa precisazione, non è un punto debole, è che ci siamo abituati a un ruolo più centrale nel racconto, nello storytelling delle proprie azioni, cosa che Biden non fa. Lui si limita allo stretto indispensabile, come accadeva normalmente in era pre-Obama con qualsiasi presidente. Questo però viene visto come un vuoto comunicativo e, dove c’è un vuoto comunicativo, siamo ormai abituati a pensare che non ci sia qualcosa da esprimere.
Cosa ci sfugge di questo conflitto sotto l’aspetto comunicativo?
Ci sfugge l'ampiezza del fenomeno: stiamo parlando di strategie messe in atto dal 2015, di presidi, di opinion maker, di denaro speso e di una costruzione di consenso politico artificiosamente indotta. Stiamo cercando una soluzione semplice e veloce per un problema complesso. Ecco: per ogni problema complesso c’è sempre almeno una soluzione semplice, ma sfortunatamente è sbagliata. Questa soluzione l’abbiamo trovata anche qui: tacitare una serie di outlet informativi di una delle due parti. E il pericolo, quando si silenzia una parte, è che in una certa contingenza di spazio-tempo politico stiamo probabilmente facendo “bene”, ma quasi mai la situazione storica, politica e sociologica rimane costante e quindi togliere una fonte informativa potrebbe ritorcersi contro di noi. Magari non nel breve, ma potrebbe accadere.