“Io sono un irrequieto. E del resto penso che ogni artista abbia una qualche forma di irrequietezza che lo spinge a creare. La mia è questa voglia di raccontare quello che vedo”. Luciano Ligabue ha tirato fuori un nuovo disco, Dedicato a noi. Un disco che, attenzione attenzione, è proprio un disco, non qualcosa di messo su per far contenta la casa discografica, quanto piuttosto un lavoro che ha un suo filo rosso, che scorre traccia dopo traccia. “Credo di non aver mai passato un inizio di decennio così complicato, e di inizi di decenni ne ho passati già sei. La pandemia, la guerra, tutto ci toglie certezze, ci spiazza, ci spaesa. Anche la musica stessa. Non potevo che raccontare quello che mi stava di fronte, e farlo scrivendo musica”.
In realtà l’intervista non è iniziata così. Chi se ne frega di come è iniziata, direte voi, figuriamoci io che l’ho fatta. È una tarda serata di una giornata insolitamente calda, altro argomento che di questi tempi contribuisce a spiazzarci e spaesarci, e siamo dentro gli uffici della Warner, a Milano, in zona Repubblica. Ligabue è come sempre asciutto, di nero vestito e coi capelli grigi di un grigio uniforme. Gioca d’attacco, il Liga, che quando mi accoglie, stringendomi la mano dice, “Vedo che i capelli si sono fatti di un altro colore, io così me li tingo, in realtà sarebbero neri”. È tutta una posa, ovviamente. Tirare fuori un lavoro così senza pelle come Dedicato a noi, mi sono detto mentre affannavo nella calura settembrina milanese, deve essere prova non da poco, per un artista che già si è tolto tante soddisfazioni, e che dall’uscita di un disco nuovo non è detto abbia necessariamente qualcosa da guadagnare. Partiamo proprio da lì.
Perché un disco nel 2023?
Proprio per il periodo assurdo che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo. Guardandolo, guardando alla mia vita, a quello che mi succede intorno e che succede in generale nel mondo, non potevo tirarmi indietro dal raccontarlo. In fondo è quello che ho sempre fatto, raccontare quello che vedo, quello che conosco.
È per questo che sei passato dal tu, che avevi utilizzato negli ultimi tempi, al noi, come facevi a inizio carriera?
Quando ho esordito, con Non è tempo per noi, cantavo un noi generazionale, che includeva certo me e quelli che si sentivano fuori posto, sempre fuori dai. Lo stesso che poi è finito dentro Sopravvissuti e sopravviventi. Poi, siccome devo raccontare necessariamente quello che conosco, e un po’ mi sentivo arrogante a raccontare le storie degli altri, ho deciso di iniziare a raccontare le mie, passando all’io.
Arrogante, certo, ma a un certo punto raccontare anche le vite degli altri è un po’ una responsabilità, uno si becca gli onori, certo, ma anche gli oneri. Hai un talento, lo devi usare…
Vero, ma comunque nel raccontare di me, credo, raccontavo storie nelle quali anche gli altri si potessero riconoscere. In qualche modo universali. Adesso, per il periodo storico che stiamo vivendo, non potevo che parlare di un noi, passare al plurale, dando però a quel noi diverse valenze. Un noi di coppia, indubbiamente, un noi come coppia che si sviluppa, una famiglia, quindi, poi un noi che includa anche gli altri che vivono nello stesso tempo, noi, appunto, e anche il noi che mi include e che include il pubblico mentre me ne sto su un palco, gente che condivide non solo il tempo, ma anche i medesimi valori.
Le canzoni del disco, non a caso, seguono un preciso fil rouge, andando anche a includere, come agli esordi, anche un noi che racconti di ragazzi.
Credo che la generazione che ha vissuto la pandemia da giovani, da ragazzi, da adolescenti, sia stata colpita proprio nel momento di formazione, quello nel quale ci si stacca dai genitori, si costruisce la propria identità, sicuramente subendone una ferita importane. Credo, quindi, che raccontare la speranza che comunque il futuro riserva loro e riserva a tutti noi, sia fondamentale, parte di quella responsabilità di cui parlavo prima.
Ti ho già raccontato di come un pezzo del testo di Per sempre, quello che fa riferimento ai tuoi genitori che sono a tavola mentre in tv passa il Festival di Sanremo, lo hai in realtà visto dentro casa mia, quando ero un bambino in Ancona. Certo, sarà successo anche a te, ma proprio per il talento e la capacità di raccontare quel che senti e vedi, hai colto un momento della mia vita, magia che succede solo agli artisti. Una cosa che mi sembra fondamentale, che mi ti fa apparire oggi particolarmente pacificato, è il fare i conti con l’anagrafe, sei un uomo adulto che parla da uomo adulto, raccontando con parole da adulto la vita a adulto, a volte anche poi raccontando storie di giovani, ma da spettatore.
Ti do una notizia in anteprima, non siamo in effetti più giovani. E non riuscirei proprio a fingere di esserlo. Nel disco ha suonato tutte le batterie mio figlio Lenny, che ha venticinque anni, e credo sia la volta in cui, in vita sua, ha passato più tempo con il me professionista, seppure io abbia lasciato a Barbacci, il coproduttore, tutta la parte che riguardava le parti di batteria, che so stargli particolarmente a cuore. Ora, a parte l’orgoglio di aver visto che ci ha messo meno di altri batteristi, superando quindi la tortura cui Barbacci solitamente sottopone tutti quelli che siedono dietro le pelli, come mai avrei potuto fingere di essere un ragazzo mentre lavoravo con mio figlio?
Ci siamo incontrati al tempo di Made in Italy, sono passati anni, ma stavolta, nonostante il periodo che stiamo vivendo, ti vedo centrato, a fuoco, quasi rasserenato.
Sai, c’è stato un tempo in cui quella responsabilità del raccontare quel che vedo, che mi sento ancora bella addosso, era accompagnata anche dalle responsabilità che in realtà non mi sarei dovuto prendere io. Come se tutto dovesse passare sotto il mio controllo, e che di tutto dovessi in qualche modo rispondere io. Adesso so che non è così, e che la mia parte di responsabilità finisce nel momento in cui il disco è finito, sta lì, adesso le canzoni devono vivere di vita propria.
Ecco, come ti aspetti che vivranno in effetti le canzoni?
Io so che le canzoni fanno sempre il cazzo che vogliono. Quindi che non posso sapere cosa accadrà. Certo, è ovvio che mi auguro che vengano accolte bene, che vengano capite, che piacciano, ma so perfettamente che questo è imponderabile, che lo scopriremo solo nel momento in cui saranno fuori e verranno ascoltate.
Ma non hai mai avuto, responsabilità di raccontare a parte, la tentazione di startene sulle tue e campare portando avanti le canzoni vecchie del tuo repertorio, come del resto fanno molti tuoi colleghi?
Qualcuno me l’ha suggerito. Anche calorosamente. Ma sono appunto un irrequieto. Devo fare, sviscerare, raccontare, non so stare con le mani in mano.
Ma magari potevi scegliere di scrivere un libro, o fare un film, del resto sei molto trasversale in questo. Intendiamoci, non voglio dire che hai fatto male a fare un disco, lo trovo particolarmente ispirato e trovo che sia fondamentale raccontare l’oggi come hai deciso di fare tu, ma a livello di tentazioni…
Sai, la musica è sempre un’altra cosa. Scrivi un libro, ci metti tempo e se va bene incontri qualcuno che a una presentazione ti dice, ‘Lo sai che mi è molto piaciuto’. Con un film è anche peggio, un lavoro della Madonna, stancantissimo, complicato, e lo vedi fuori dopo due anni, magari passa qualche giorno al cinema e non se ne parla più. Le canzoni invece vivono a lungo, almeno alcune, le proponi dal vivo, la gente le canta, le fa proprie. Ecco, diciamo che in cuor mio cullo la speranza che alcune di queste canzoni potrò suonarle anche in futuro, quando saranno a loro volta vecchie canzoni del mio repertorio, come oggi capita alle altre.
Dedicato a noi, questo il titolo del nuovo lavoro di Luciano Ligabue, undici canzoni, anticipate dai due singoli apripista, Riderai, uscita questa estate, e Una canzone senza tempo, tutte concatenate nella tracklist, è un disco disco, dicevo prima, un lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine, seguendo l’ordine esatto che Ligabue ha pensato per sé, e anche per noi.
So bene che Spotify ragiona su singole canzoni, e che quello che funziona meglio è nelle playlist, quindi slegato dall’idea di album, figuriamoci di un album che abbia un concept dietro, una sorta di trama, ma per quanto io stesso sia finito sotto le logiche dello streaming, quasi in ostaggio della marea di musica che ogni giorno esce, non potevo certo assoggettarmi a quelle regole nel proporre il mio nuovo lavoro. Questo è un lavoro che segue le mie solite regole, e che rispetto al passato ci ha visto passare anche molto più tempo in studio del solito. Ho uno studio mio, i miei collaboratori hanno voglia di star lì a lavorarci con me, non ci siamo dati fretta, ché fretta non c’era. Quel che succederà lo scopriremo poi. Spero solo che chi ne è incuriosito gli dedichi del tempo. In fondo il titolo dice anche questo, no? Dedicato a noi. Nel senso che parla di noi, certo, di tutti quei noi di cui ti dicevo, la coppia, la famiglia, il noi qui e oggi, io e il mio pubblico. Ma quel Dedicato a noi è anche un invito a dedicarci a noi, a prenderci cura di noi, a prenderci tutto il tempo che ci serve, ché la vita che stiamo vivendo è già abbastanza funestata di suo.”
Sarà anche irrequieto, Ligabue, ma è in forma, e ha tirato fuori un album importante, che non si tira indietro quando si tratta di fare i conti con una attualità complessa e difficile come quella che ci circonda, e che ci ha attanagliato, letteralmente, negli ultimi anni. Un disco a suo modo politico, come non potrebbe che essere un disco che racconti quel che ci gira intorno, anche nel momento in cui parla d’amore, sia quello maturo, di chi era protagonista di Salviamoci la pelle, incontrati di nuovo a distanza di trent’anni incontrati nell’apertura di Così come sei, sia di chi oggi è un ipotetico protagonista attualizzato di Salviamoci la pelle, protagonisti 2.0 di Stanotte più che mai, le svisate a tratti sferzanti di Musica e parole, a tratti quantomai poetiche di Quel tanto che basta, mica a caso seguita dal pugno in faccia di Niente piano B a fare il resto. Sarà possibile vederlo dal vivo a partire dal 9 ottobre fino al primo dicembre, online trovate tutte le date. Se tanto mi dà tanto davvero è il caso di non perderselo.