Stefano Landini é regista di Stolen Moments, il suo ultimo film uscito nelle sale proprio quest’anno. In un angolo dimenticato di Torino, dove il suono del jazz si mescola con il respiro di una città che cambia, nasce un sogno. Stolen Moments con veri attori e finte interviste, secondo il genere mockumentary, racconta la storia di questo sogno. Tutto parte da Sabino, un giovane pugliese con la passione per la musica, e dal suo coraggio nel lanciare, insieme a Michele e a Pasquale (nel film compare anche Pupi Avati), un club in un vecchio capannone destinato ad accogliere le famiglie degli emigrati del Sud. In un'epoca difficile, dove il degrado rischiava di inghiottire la speranza, la loro scommessa culturale trasforma quel luogo in un rifugio di libertà e respiro per tutti. Noi con Stefano Landini abbiamo parlato di questo film, del genere del documentario spesso poco approfondito e bistrattato al cinema, della Torino di un tempo e di quando il jazz, proprio come la trap oggi, era considerata una forma d'arte degenerata.
Stefano, sei montatore regista e sceneggiatore. Quanto è importante oggi, nell'era digitale, recuperare il “fatto a mano”, l’idea di un tempo più lento e meno frenetico?
Appartengo ad una vecchia generazione di diplomati al Centro Sperimentale di Cinematografia che si inseriscono a cavallo tra l’ analogico e il digitale, ho iniziato sporcandomi le mani con la pressa Catozzo, grazie a montatori veri, non me, a cui devo moltissimo. Poi l’avvento dell’Avid ci ha avvicinato un po’ tutti. Quanto allo scrivere ho iniziato così, è capitato di partire da idee non mie, ma avendo avuto al Centro Sperimentale la fortuna di seguire i corsi di veri grandi nomi della scrittura come ad esempio Furio Scarpelli, ho sempre proseguito con la scrittura che partiva da me, dal mio intimo , per la vicinanza a determinati temi di cui parlavo più sopra.
Nella tua carriera hai realizzato diversi documentari. Qual è il segreto per raccontare il passato in maniera nuova, senza risultare didascalici?
Non spetta certo a me rispondere, visto che mi avvicino al documentario con la massima umiltà possibile, pur avendo avuto dei veri maestri come Virgilio Tosi e Luigi Di Gianni, parlare di segreti in un mondo dove gli approcci sono tanti. Un vero decano del cinema del Reale, Gianfranco Pannone asssieme a cui ho studiato al Csc, potrebbe rispondervi. La presenza o meno di un pedinamento zavattiniano, la distanza che si vuole mantenere con i soggetti raccontati, la presenza o meno di un narratore…gli approcci, ripeto, sono infiniti.
Stolen Moments. Una docu-fiction con veri attori e finte interviste in cui si racconta il personaggio di Sabino amante del jazz che apre un jazz club a Torino. Come è nato questo progetto?
Stolen Moments nasce mentre stavo realizzando il documentario Cocktail Bar, sulla grande storia del Music Inn, il locale di Roma negli anni Settanta, con l’amato e compianto Toni Lama che ci ha lasciato di recente. Cocktail Bar è prima di tutto la storia di Pepito Pignatelli, eccentrico principe innamorato del jazz oltre che della sua bella moglie Picchi. Ho scoperto che purtroppo, negli anni Settanta, a Torino venivano utilizzati dei capannoni per ‘alloggiare ‘ gli operai del sud italia, in condizioni igieniche e sanitarie impossibili. Il nostro protagonista, senza volerlo , si ritrova a salvare da questo destino una famiglia.
Un tempo il jazz era considerata una forma d’arte degenerata. Oggi un genere che viene definito così è la trap.
É vero, negli anni Quaranta il jazz era considerato esattamente così, ma attraverso delle disposizioni legislative. Un periodo terribile, paragonabile ora forse soltanto al velo e alla sharia nei paesi islamici. Non ci sono casi documentati di una furia così forte nei confronti della musica, per cui direi che mi sono lasciato prendere dalla libertà espressiva.