“Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliere una carriera. [...] e alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in un ospizio schifoso, appena un motivo d’imbarazzo per gli idioti viziate ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro. Scegliete la vita”. Il monologo finale di Renton in "Trainspotting" risuona oggi più attuale che mai. Adolescenti, giovani, adulti, stiamo vivendo tutti nella stessa linea temporale in cui il lavoro non nobilita l’uomo, ma lo debilita. Il lavoro non rende liberi, ma schiavi. Anche il lavoro che amiamo si può trasformare in un incubo, che non ci fa dormire la notte, o ci fa alzare bestemmiando ogni giorno. Siamo in trappola, prigionieri di un loop che non ci siamo creati, cercati, ma che è necessario per vivere. Così, finiamo inesorabilmente per vivere per lavorare e non lavorare per vivere. Ho subito pensato a Renton e al suo monologo ascoltando “Factotum”, tra i brani di “È finita la pace”, nuovo album di Marracash uscito a sorpresa da qualche giorno.
“Il lavoro debilita l’uomo / non rinuncia la sera all’uscita / vado a letto la notte che muoio, mi sveglio che sono quasi in fin di vita”. In un momento storico in cui si tende a normalizzare le difficoltà, a mascherare le crepe del sistema sociale con un sorriso di circostanza, a parlare di “mental breakdown” e “burnout” come se fossero temi per raccimolare qualche like sui social, Marracash è riuscito ad andare oltre la “semplice” operazione artistica, abbattendo quel muro per cui non si può parlare di precariato, di soldi, di chi lavora in nero (perché, magari, non può fare altrimenti), di chi sopravvive, più che vivere. “Oggi in cantiere io e un eritreo / metto canaline su un piano intero / in pausa stecchiti dormiamo in cartoni imbottiti di lana di vetro / la vita è “produci-consuma-crepa” / chiunque di noi prima o poi lo accetta”. Questo è forse il passaggio più crudo e reale di “Factotum”. Io per prima a “chiunque di noi prima o poi lo accetta” sento una pugnalata proprio al centro del petto. In queste parole c’è tutta la rassegnazione di coloro che guadagno 500 euro al mese come finte partite iva, di chi fa fatica ad arrivarci a fine mese perché gli affitti sono alti e anche fare la spesa sembra essere diventato un lusso. Ci sono tutti coloro che accettano di fare sottopagati il lavoro dei sogni, sperando in un futuro migliore, o almeno accettabile. C’è chi vive nelle case popolari, o chi vive in “centro” in un monolocale di dodici metri quadri. Ci sono tutti coloro che la mattina si alzano e almeno una volta al giorno si dicono “vorrei non essermi svegliato”. C’è l’accettazione di un mondo che ci schiaccia, ci mastica e ci sputa, perché non siamo indispensabili. Oggi ci sono io, domani ci sarà qualcun altro, e così fino alla fine dei tempi.
Marracash con “Factotum” riesce a raccontare non la difficoltà di una generazione, ma quella di tutti. Di chi è precario, ma anche di chi non lo è, ma non riesce a vivere una vita dignitosa, tra aspettative sociali e costanti sensazioni di inadeguatezza. Un’analisi chirurgica, quella fatta dal rapper, che arriva nel momento perfetto. Perché? Beh, al settantacinquesimo Festival di Sanremo ascolteremo canzoni che “racconteranno un micromondo”, quello della famiglia e dei rapporti personali. Non si parlerà di imminigrazione o della guerra, per prendere due temi scottanti. Una scelta degli artisti in gara? Sembra difficile pensarlo, tenendo presenti alcuni nomi (come quello di Willie Peyote). Carlo Conti ci ha tenuto a sottolineare di non aver mai detto di non volere canzoni su guerra e immigrazione a Sanremo, e io provo a crederci. Dall’altra parte, però, mi chiedo come sia possibile non utilizzare Sanremo come cassa di risonanza per raccontare il paese reale, che è tutto tranne rassicurante. Al Festival della canzone italiana, tra famiglia e rapporti personali, spero di sentir cantare anche di tutto quello che ci riguarda più da vicino. Perché senza lavoro, senza stabilità economica e soprattutto emotiva, spesso vengono meno la famiglia e i rapporti personali. Il meccanismo si rompe, perché ormai è tutto frutto di concatenazioni che spesso sfuggono al nostro controllo. E la scelta di Marracash di dedicare un brano al lavoro, nel mondo contemporaneo, dove essere un “factotum” non è più una condizione temporanea ma una condizione strutturale, è quanto di più vero, potente e doloroso si possa fare oggi. Ed è quello che vorremmo ascoltare, ampliato anche ad altri temi, anche su un palco importante come quello di Sanremo.