“Io piango quanno casco nello sguardo de ‘n cane vagabondo, perché ce somijamo in modo assurdo, semo due soli al monno.” Mi sveglio con queste parole in testa. Potrebbe dirmi qualcosa, tipo che non sono esattamente in perfetta forma, parlo di forma mentale, ma in realtà è che ieri ho visto una puntata di una serie su Netflix, Suburra Aeterna, nella quale c’era quella canzone, in una versione non esattamente incredibile. Non c’era la voce di Califano, per dire, e già basterebbe questo. E neanche quella di Federico Zampaglione, che, sia messo agli atti, è il solo erede di Califano, chiunque dice il contrario mente sapendo di mentire. Erede che per altro Califano aveva evidentemente scelto di sua mano, visti gli ultimi anni della sua vita. Canzone strepitosa, Io piango, romantica, malinconica, per certi versi epica nel suo enfatizzare un modo di vivere che, però, non è il mio. Non sono un vagabondo, innanzitutto, nel senso comune del termine e neanche nel senso califiano, anche se da questo punto di vista forse un po’ mi ci posso avvicinare, anarchico come lui. E non sono solo al mondo, o monno che dir si voglia, vivo costantemente in mezzo agli altri, pur avendo scelto in teoria un lavoro che pretenderebbe di starsene per conto proprio, davanti al computer a scrivere. Ho una famiglia numerosa, e anche il lavoro nel tempo è diventato altro.
Però a volte piango. Senza trincerarmi dietro una mascolinità che suppongo abiti la mia scrittura, e forse non solo quella. Piango anche senza bisogno di esibirlo come parte di un atteggiamento da macho, atteggiamento che prevede uno spiraglio di fragilità emotiva, un sentimentalismo forse sarebbe più corretto dire, piango per i cazzi miei, quando serve, quando serve a me, e quando il mondo mi offre o impone occasione di farlo. Per il resto sto lì, trincerato dietro la mia immagine, e quindi la mia penna, flexando muscoli che credo di avere, e che comunque sono ritenuti efficaci dagli altri, e tanto basta. Credo che anche Marracash, fuori a sorpresa nelle ultime ore con un nuovo album, dal sintomatico titolo, È finita la pace, la pensi un po’ così, visto che nella canzone di apertura, Power Slap, oltre che prendere a schiaffoni un po’ tutti prova a spiegarci perché lo fa rappando: “Quando ero bimbo la diversità era debolezza/ perciò non fingo e intingo nel veleno la mia penna. Con le buone non cambi le cose. Ho la soluzione” e visto che per il resto dell’album sfodera una rabbia lucida che raramente ci è capitata di ascoltare di recente. Alla faccia di Carlo Conti, che si vanta di aver messo nel cast del prossimo Festival di Sanremo canzoni che non trattino attualità o temi civili, quindi niente guerre o immigrazione, sia mai, Marracash parla di genocidio in Palestina, chiamandolo giustamente così, o dedica una intera canzone al lavoro precario, titolo Factotum, andando di fatto a fare quel che i cantautori da tempo si dimenticano di mettere in pratica: la denuncia sociale. So che queste mie parole, oggi più del solito, e già il solito è tanto di suo, vi risulteranno ondivaghe. Quando ero giovane ho visto Sud di Salvatores, esattamente nel periodo in cui stavo vivendo situazioni non troppo diverse da quelle descritte nel film, e ho metabolizzato le parole di Silvio Orlando, mi sembra fosse lui, quando spiega che nella vita tocca sempre muoversi procedendo a zig zag, per non finire nel mirino della guardie, e ho deciso di adottare la stessa modalità anche nella scrittura. Il fatto è che stanotte, scrivo la mattina del 13 di dicembre, incidentalmente Santa Lucia, sono usciti due album che mi sembrano nella loro diversità epocali, Casa Gospel di Thasup e sua sorella Mara Sattei, uscita spoilerata giorni fa con il guerrilla marketing avvenuto a due passi da casa mia, ve ne parlavo qui, e È finita la pace, di Marracash, uscito di botto, senza manco un annuncio o altro. Due album fondamentali, nella loro estrema diversità.
Il primo con lo sguardo rivolto verso il cielo, di vero album gospel si tratta, sempre tenendo conto che a proporlo sono Thasup e Mara Sattei. Il secondo rivolto verso il basso, la Terra, con una rabbia lucidissima che fa sbottare il rapper della Barona in liriche al vetriolo, capaci di distruggere in rima le ipocrisie che dominano, quelle della società nella quale ci muoviamo come quelle del mondo della musica (micidiale la barra “questi cadono da fermi, non gestiscono il successo figurati i fallimenti”, per poi proseguire, dopo aver regalato perle come “favori non ne chiedo e non ne faccio più, tu da quanti cazzi succhi fai il calippo tour”, e infine “ne abbiamo piene le palle, le stesse marche, stessi designer, stessi orologi, stesse vacanze, stessi producer e stesse guest, stessi argomenti le stesse reference, va bene così perché fanno tutti platini, premiati in tv, tutti bravi su Esse magazine, carriati dai feat, fitti fitti stessi nomi carriati dai rit. scritti dagli stessi autori. Ogni anno si abbassa l’asticella, provo a farci il limbo con la testa tocco terra, ti ricordo bimbo che saresti con ‘sta sberla, senza Sanremo, senza l’estivo, senza Petrella”. Boom). Entrambi rivolti verso l’interno, in due forme di introspezione, quella che Marracash identifica in un “monolocale free da arreda qui nel torace”, inutile che io ora stia qui a trovare una descrizione più efficace. Introspezione che muta la disperazione in voglia di reagire, nel caso del rapper, e che spinge a cercare in una spiritualità che si fa al tempo stesso fratellanza, universale e concreta, reale, nel caso dei fratelli Mattei. Li ascolto e piango, come Califano, ma perché mi sento assai poco solo, semmai per aver trovato per una volta dell’umanità dentro due dischi, per di più due dischi usciti a sorpresa, anche di artisti anagraficamente non appartenenti alla mia medesima generazione. Come nel caso dello Ying e dello Yang, due opposti che si somigliano molto, nelle intenzioni, nella verità contenuta in ogni singola parola, in ogni singola nota, anche in quelle parole di Thasup che fatico sempre a comprendere. Una sorta di ancora di salvezza per la mia speranza, per il mio ottimismo, troppo spesso ultimamente messo a dura prova dalle uscite discografiche tutte fatte con lo stampino, tutte uguali nei suoni, mica è un caso che Marra se la prenda con Petrella, autore tra le altre robe di Sesso e samba, gli estivi e i brani sanremesi degli ultimi anni. Stomaco e cuore, questi gli organi interni interessati dall’ascolto di questi due lavori, in un venerdì mattina di sciopero generale, andatevi a sentire Factotum, sempre di Marracash, non me ne vorranno Thasup e Mara Sattei se cito sempre e solo lui, ma l’essenza del loro lavoro, quel senso di spiritualità che affonda le radici nello stare fianco a fianco, lo sguardo verso l’alto, mi è arrivato, giuro, andatevi quindi a sentire Factotum se volete una canzone che oggi ci parli di precariato. Anzi, se volete sentire qualcuno che parli di precariato senza retorica, dritto per dritto. E andatevi a ascoltare questa versione 2024 di canti atti a raccontarci un Dio potrebbe forse non essere necessariamente quello che fa riferimento al nostro immaginario di paese cattolico, direi che è irrilevante, loro credo siano protestanti, quindi il medesimo Dio in una rilettura differente. Dopo una partenza decisamente up, Posto mio e Egli è il re sono tracce decisamente solari, forse a tratti anche troppo, ci sono alcune tracce che lasciano indubbiamente il segno, parlo di Come polvere, quasi accecante per la bellezza proposta dall’intreccio delle loro voci, flow completamente differenti che sono però legati da un comune Dna, e non parlo solo di biologia, parlo di Occhi miei, posta in chiusura e sulle stesse differenze e tratti in comune basata. Pubblicare oggi un disco che si proponga, in Italia, come un disco a suo modo con uno spirito religioso è un gesto di coraggio che sfiora quasi la spavalderia, la medesima che Marra esibisce rimettendo al loro posto i colleghi che non ce la possono fare. Fatevi un giro sui social per vedere cosa capita a chi provi a dichiararsi credente in certi ambienti, se avete dubbi a riguardo. Qualcuno a questo punto potrebbe chiedersi e chiedermi (chiedermi se ci fosse un modo reale per chi legge di porre domande a chi scrive, spoiler, non c’è) perché io abbia deciso di scrivere un pezzo che parte da Io piango di Franco Califano, per poi proseguire in parallelo tra le due recenti uscite di Marracash e Thasup e Mara Sattei assieme. Potrebbe se rientrasse in quel 35% di italiani che l’Ocse ci dice essere analfabeta funzionale, cioè incapace di comprendere ciò che ha letto, e potrebbe se gli sfuggisse che a volte esternare rabbia e amore fraterno sia in realtà rappresentare una medaglia a due facce. Di più, se gli sfuggisse che guardandosi dentro potrebbe capitare di trovare rabbia e bisogno di un sollievo che non faccia necessariamente ricorso alla razionalità, sempre e comunque all’insegna della sincerità, la titletrack del brano di Marracash, con quel refrain preso da Firenze (canzone triste) di Ivan Graziani andrebbe sparata dagli altoparlanti in alternazione con Bless to bless di Thasup e Mara Sattei, vedreste come le cose potrebbero cominciare a andare un po’ meglio. Io per una volta mi sono concentrato di indicarvi un po’ di bellezza, poi a voi la volontà o meno di coglierla. Perché è vero che un vaffanculo fa più rumore di un albero che cresce, ma si avvicina Natale, per oggi voglio essere buono anche io.