Dopo i 7 minuti di applausi ricevuti a Cannes, Johnny Depp arriva nelle sale italiane con Jeanne Du Barry – La favorita del re della regista Maïwenn. Scagionato dalle accuse di Amber Heard, Johnny è finalmente tornato sul grande schermo. Lo fa in una vicenda che lo vede vestire i panni di Luigi XV, il sovrano che decise di inserire una prostituta nella corte più importante dell’epoca. Questa è, ovviamente, Jeanne du Barry, interpretata proprio dalla regista. Il re è stanco, incapace ormai di governare con l’energia necessaria la caotica Versailles. La vista dell’amante, però, rinnova momentaneamente il suo animo, lasciando intravedere una luce nel buio della vita di corte. La novella contessa non è un semplice giocattolo nelle mani del signore, anzi: la favorita giocò un ruolo cruciale nella vita della Versailles che si affacciava sulla rivoluzione. Molte delle decisioni e dei comportamenti che il re teneva a corte, infatti, erano preventivamente concordati con la dama, sussurrati in un orecchio prima che il resto dei nobili potesse accorgersene. Stavolta il nostro Johnny ha dovuto rinunciare ad alcune delle libertà che la “sua” Hollywood gli garantiva sul set. Maïwenn ha detto alla rivista Premiere che la collaborazione con Johnny è stata difficile: “A Hollywood sono i grandi attori a dirigere i registi”. Pare aver persino osato bussare alla porta del suo camerino, un tabù inscalfibile che la regista quarantasettenne ha infranto senza remore perché “in Francia funziona così”. Caro Johnny, paese che vai… Ad ogni modo, il film non riesce a cogliere il carattere rivoluzionario, o perlomeno moderno, di Jeanne du Barry. All’inizio sentiamo parlare di lei come di un’avida lettrice, ma oltre a qualche libro tenuto in mano non sfoggia nessun particolare ingegno. Ride e deride gli altri inquilini di Versailles, i quali non sono dei personaggi sviluppati a sufficienza per tenere testa al duo Maïwenn-Depp. Le figlie del re, per esempio, sono la parodia delle sorellastre di Cenerentola: grottesche, sì, ma senza carattere. Bambole brutte e senza personalità. L’unica che sembra differenziarsi è “L’ultima”, la figlia prediletta di re Luigi, che decide di prendere i voti e lasciare Versailles. Senza la voce fuori campo che ci avverte della preferenza del re verso la figlia più giovane non ci saremmo quasi accorti di nulla.
Uno dei problemi maggiori del film è proprio questo: i passaggi potenzialmente più interessanti vengono affidati a un narratore onnisciente e non vengono sviluppati all’interno della narrazione. Il conferimento del titolo di contessa o la rapida morte del sovrano, con il conseguente ritiro in convento di du Barry, sono dei semplici balzi temporali che glissano su tutti questi snodi fondamentali. Persino il finale (spoiler) non rende giustizia all’importanza del momento: il paggetto africano “regalato” da Luigi all’amante viene definito come colui che rivelò il ruolo della padrona, portandola alla decapitazione. Du Barry fu l’ultima del vecchio regime a perdere la testa. Però no, non ci è dato vedere nemmeno questo tradimento. I conflitti interni alla corte e le dispute sul malcostume della favorita sono ridotti a dei sospiri di indignazione dei commensali. Tutto riassumibile in un: “Ma come osa!”. Per una donna che rischiò di negare l’ultima confessione prima della morte al re di Francia forse è un po’ poco. Nota è l’antipatia di Madame du Barry nei confronti di Marie Antoinette, la moglie austriaca del malcapitato Luigi XIV. La giovane regina, però, è qui poco più di una macchietta. La filmografia recente ha spesso calcato la mano sulla regina decapitata, il simbolo della fine dell’Ancien Régime, piuttosto che sull’amante di Luigi XV. Marie Antoinette di Sofia Coppola, con protagonista Kirsten Dunst, raffigurava una regina moderna e infantile allo stesso tempo: capace di resistere alle turbolenze di una corte in declino (oltre che alle difficoltà sessuali del maritino) e determinata nella sua volontà di vivere bene una vita fatta di dolci, moda e giardinaggio. Il tutto condito dal sesso extraconiugale con il generale svedese von Fersen (Jamie Dornan). Mai nascosto il distacco e mai velata la superiorità della propria immagine su quella della “sgualdrina di corte” du Barry (interpretata in questo caso da Asia Argento), definita così dalle amichette della regina, sempre pronte a giudicarne i vestiti, le scarpe e i baci troppo spinti con il re durante i banchetti. Come in una soap di Canale 5, il gossip di Versailles ha fatto parte dell’immagine di una corte corrotta fin nel midollo dai propri vizi, dagli eccessi e da una volontà di apparenza che ha raggiunto le vette dell’orrido. Il meglio del peggio: il pessimo. Pessimo gusto e pessime abitudini quelle di chi gode a veder mangiare il proprio re stando in piedi attorno alla tavola. Il merito del film di Coppola è la rappresentazione dell’estraneità di Maria Antonietta, spesso accompagnata da sonorità contemporanee che esaltano la dissonanza del personaggio. La scena conclusiva, in effetti, ricorda la copertina di un album di una band rock: un lampadario caduto e una stanza in stile Luigi XIV completamente devastata.
Diversa è invece l’immagine della sovrana in Les Adieux à la Reine, con Maria Antonietta interpretata da Diane Kruger e Léa Seydoux come sua lettrice personale: nel film diretto da Benoît Jacquot la giovane regina è scostante e vede il mondo intorno a lei che si sgretola. Organizza compulsivamente il necessario per la fuga e passa il tempo a scegliere le stoffe per il prossimo vestito, che altro non avrebbe potuto essere se non il suo abito funebre. Attorno a lei si agita il microcosmo di Versailles: gli abitanti della corte si divincolano come topi nei corridoi dell’immensa dimora. Al buio, con la luce delle candele che fa brillare gli occhi spaventati dei vari personaggi. Principi, nobildonne e camerieri: tutti uguali di fronte al terrore del popolo che avanza e che vuole prendersi le loro teste. Un mondo fatato che sta per essere invaso dalla massa di affamati, stanchi delle tasse e dei capricci reali. Versailles è una “presenza assente”, invece, ne Il mondo nuovo di Ettore Scola, dove il palazzo dei nobili non entra mai nell’inquadratura. Tramite dispacci, notizie, voci e mandati di cattura la regale caduta dei sovrani è raccontata e commentata dai protagonisti del viaggio che conduce lo spettatore lontano dalla capitale. C’è il “pornografo” Restif (Jeanne-Louis Barrault), la contessa de la Borde (Anna Schygulla), Thomas Paine (Harvey Keitel) e persino Casanova, animato da Marcello Mastroianni. Nella carrozza in cui viaggiano si scontrano visioni del mondo, il vecchio e il nuovo, lo scandalo e la vecchia morale (non così ferrea vista la volubilità dei rappresentanti della corte decaduta). Tutto questo durante la caduta di un regime che ormai è un dead man walking. Il re, nel frattempo, è fuggito con la famiglia verso Metz, la roccaforte che avrebbe dovuto salvare il salvabile. Mai giunse la carrozza reale, che si fermò a Varennes. Il popolo non seppe resistere: la fame era troppa, le ferite così profonde da essere incancrenite. Una sola cosa era necessaria: “A Parigi!”. La testa dei due fantocci reali doveva cadere.
È, dunque, un re sbiadito il Luigi XV di Johnny Depp. Caratterizzato da un “lato oscuro” che il film stenta a farci conoscere. Un re malato, ucciso velocemente dal vaiolo. Una parabola discendente repentina e raccontata un po’ sommariamente. Johnny assomiglia anche al suo successore, Luigi XIV: un re in fuga. Nel suo caso da Hollywood, che un tempo fu il suo regno. Ma come ricorda Casanova nel film di Scola, “un re che fugge è ogni minuto che passa un po’ meno re”. La du Barry di Maïwenn non restituisce l’intelligenza e la scaltrezza di una donna che si fece strada nel groviglio delle usanze di corte e che, invece, sembra essere lì per caso. Sostenuta da qualche sbuffo del Delfino e dall’aiuto di de La Borde (Benjamin Lavernhe), il maggiordomo del re, nonché unico personaggio con un profilo più riconoscibile. La favorita, capace di penetrare un mondo impermeabile con il proprio fascino, se ne va senza lasciare traccia. Madame du Barry doveva essere molto più di questo. In certi casi, la storia (vera) è più fantasiosa dei film.