Jovanotti non è solo un artista, ma è una sorta di viaggiatore del tempo. E con Il Corpo Umano Vol. 1, in uscita il 31 gennaio, trasforma persino l’esperienza traumatica di un incidente in bici a Santo Domingo in un’opera che celebra la vita, con tutte le sue contraddizioni: “Ho capito di avere un corpo solo quando si è rotto”, mi ha raccontato Lorenzo quando l’ho incontrato, facendo vibrare quelle corde che appartengono a ciascuno di noi. È questa capacità di trasformare il personale in universale che gli ha permesso, negli anni, di essere sempre un passo avanti, un osservatore acuto e anche un precursore. Non è infatti la prima volta che Jovanotti anticipa i tempi, e Il Corpo Umano non è un caso isolato. Era già successo, cito in ordine sparso, con Lorenzo 2002 – Il quinto mondo, quando cantava di globalizzazione ed ecologia, temi che oggi dominano l’agenda politica e sociale. Oppure con Ora (2011), che esplorava sonorità elettroniche ben prima che la dance contaminasse stabilmente il pop italiano. Lo stesso vale per Oh, Vita! (2017), dove la collaborazione con Rick Rubin spogliava la musica di tutto il superfluo, anticipando il ritorno a una produzione minimalista. Jovanotti ha sempre saputo leggere il presente con l’intuizione di chi già intravede il futuro. Ma ieri sera, alla presentazione del disco al Teatro Giorgio Gaber di Milano, ci ha dato una prova plastica di questa sua capacità “divinatoria”.
Con Il Corpo Umano, Jovanotti aggiunge una sfumatura nuova: quella della vulnerabilità. Brani come Fuorionda - dove canta: “Quel giorno in ambulanza ho capito che si muore. Ed è stata la prima volta che il protagonista ero io” - alternano la riflessione alla spinta irrefrenabile del ballo, trasformando anche le tragedie in un invito a danzare: “Quella frase puoi sentirla solo se vuoi. Altrimenti è solo ritmo, pura energia”. Una lezione che arriva da un artista che ha già rivoluzionato il concetto di live show con il Jova Beach Party, anticipando l’importanza della sostenibilità nei grandi eventi (e quest’anno si unisce al No Borders Festival con il suo Jova Bike Concert), o che con Non voglio cambiare pianeta (2020) ha unito introspezione e avventura in un docutrip che ha aperto la strada a un nuovo modo di raccontare il viaggio. E se qualcuno pensa che queste intuizioni siano casuali, Lorenzo ribadisce che “il mestiere di chi fa canzoni è una fortuna e una condanna: tutto diventa materia per scrivere”. Insomma, lui che da sempre gira il mondo con curiosità, una volta tornato a casa - qualunque cosa gli succeda - sembra un po’ come il mago Melquíades di Cent’anni di solitudine, che fa scoprire a noi stupiti José Arcadio Buendía le novità che un giorno saranno alla portata di tutti.
Ma è anche il suo sguardo a fare la differenza: uno sguardo che abbatte le barriere tra alto e basso, come quando mi risponde sulle polemiche legate alla sua dichiarazione su “Tony Effe e Mozart che in fondo sono colleghi”. E, provocatoriamente, rilancia prendendo spunto dal pezzo Montecristo: “Dumas era il reggaeton dell’Ottocento. Scriveva per il popolo, come oggi fanno i grandi artisti pop”. Ed è forse questo il vero segreto di Jovanotti: mescolare linguaggi, culture e storie, senza paura di sporcarsi le mani con ciò che è considerato troppo popolare. Così, con Il Corpo Umano, Lorenzo ci racconta ancora una volta una rinascita che è anche un inno all’imperfezione e alla forza del cambiamento: “Cerco di dire cose intelligenti, ma non sono mica tanto sicuro che si possano dire delle cose intelligenti sulle canzoni che scrivi. Le canzoni per me sono la mia vita, io ci sto dentro e prendono il sopravvento, ma non è che abbia il controllo su di loro. Non dirigo praticamente nulla, sono un osservatore di quello che accade dentro di me e poi cerco di dargli una forma. Quindi, quando sono finite, mi piace di più sentire soprattutto cosa ne pensano gli altri, e assisto a quello che scateneranno”, mi ha ribadito, senza ergersi a guru. E se c’è una certezza, è che continuerà a guidarci verso il futuro, come ha sempre fatto, una canzone alla volta.