Quella notte José Arcadio Buendìa sognò che in quel luogo sorgeva una città rumorosa piena di case con pareti di specchio. Chiese che città fosse quella, e gli risposero con un nome che non aveva mai sentito, che non aveva alcun significato, ma che nel sonno aveva avuto un'eco soprannaturale: Macondo.
(Gabriel García Márquez, Cent'anni di solitudine, Mondadori, 2021)
Cent'anni di solitudine. Libro e ora serie tv su Netflix. Qualche tempo fa, avevamo letto la recensione positiva del critico Aldo Grasso sul Corriere. E così, in una delle tante sere che si ripetono ci siamo abbonati di nuovo alla piattaforma e l'abbiamo recuperata. Era difficile fare un serie capace di far sentire a chi scrive una presenza. Sullo schermo, il fermento di una città che nasce. Vicino al letto, le voci di Borges, Cortázar, Márquez, Casares, Ocampo, Garmendia. I numeri, i labirinti, l'amore si cercano nel sonno della testa, il senso delle cose che si perde mentre si assiste a un racconto come questo su un piccolo schermo. Era difficile, forse impossibile realizzare un prodotto che ha alle spalle un libro che ha cambiato tutto, la vita di Marquez, le idee della gente. Eppure, vedere Cent'anni di solitudine di Alex García López e Laura Mora con Diego Vásquez, Marleyda Soto e Claudio Cataño è stato come leggere il romanzo ad alta voce. Abbiamo ripensato agli anni in cui lo avevamo incontrato, il libro, ai volti che avevamo scelto noi per i personaggi, al mare che non trovano, che sembra arrivare e non arrivare mai. A Mancondo. E poi quello che resta dei nostri morti, il gioco, il coraggio, la persecuzione, il sogno. Cent'anni di solitudine è un libro ma ancor prima un’ideale. E ora una serie, bellissima.
In una società che filtra persino i nostri pensieri, in cui gli schermi diventano semplicemente altre lenti del nostro guardare, la serie Netflix, come faceva il libro, ci permette di uscire, di trovare la strada per la nostra città aperta e invisibile. Ha reso filmato, il non-reale nel mondo reale come spettacolo, quello che abbiamo sempre letto nei libri e visto nei film dei tres amigos Del Toro, Iñárritu e Cuarón. La sensazione di poter scappare da una realtà opprimente e occlusiva senza lasciare traccia, partire per una nuova avventura. Verso una nostra Isola di mezzogiorno, come nell'omonimo racconto di Julio Cortázar incluso nella raccolta Tutti i fuochi il fuoco, in cui un assistente di volo si trasferisce a Xiros, un atollo di cui si era perdutamente innamorato, che sorvolava ogni giorno a mezzogiorno.
Chiudendo gli occhi si disse che non avrebbe guardato l’aereo, che non si sarebbe lasciato contaminare dalla parte peggiore di se stesso, che una volta di più sarebbe passata sull’isola.
(Julio Cortázar, L'isola di mezzogiorno in Tutti i fuochi il fuoco, Einaudi, 2005)
Cent'anni di solitudine è l'isola dove andare, dove trovare rifugio da quello che ci circonda, dagli incubi dei giorni, dalla sopraffazione delle notti. Per vivere attraverso uno schermo, come nel libro, a occhi aperti, una nuova vita.