Partiamo dalle cose che mancano in A Complete Unknown di James Mangold: una panoramica precisa e dettagliata di tutto ciò che sta accadendo nel mondo - le notizie sulla Guerra fredda e le battaglie per i diritti civili di quel periodo sono lasciate lì, ricordate solo da qualche trasmissione televisiva; di Bob Dylan non vediamo le origini, prima della sua venuta a New York, né quelle strettamente biografiche né tantomeno quelle delle musiche di quel periodo (Blowin’ in the Wind e Like a Rolling Stone, per dire); la vita da artista e degli eccessi prende pochi minuti delle quasi due ore e mezza di film. Sì, A Complete Unknown è un biopic musicale non troppo complesso, che si fa forza soprattutto dell’aura di Timothée Chalamet, ormai lanciato come il bello e bravo del cinema mondiale del presente e del futuro. Monica Barbaro, nell’interpretazione di Joan Baez, rimane comunque una figura centrale: è grazie a lei che Dylan comprende certe dinamiche del mondo della musica dei Sessanta. Quello stesso mondo che Bob tradirà. E Barbaro canta bene, come tutto il cast. Edward Norton è quasi commovente nei panni di Pete Seeger, contemporaneamente amico, ispiratore, mecenate e, infine, purista del folk da accantonare. Poi qualche spunto di Johnny Cash (Boyd Holdbrook) e Sylvie Russo (Elle Fanning), finto nome di Suze Rotolo, la prima fidanzata di Dylan, la vera “sconfitta” della storia, colei che non ha saputo opporsi al freewheelin’ del menestrello. Ci sono un paio di scambi con Cash che sono fondamentali nella seconda parte del film: “Lotta sempre contro i poteri forti”, scrive Johnny a Bob. Anche se i poteri forti sono il suo passato, i vecchi idoli folk. L’humus di conoscenze, relazioni e di esperienze che sta alla base del going electric si forma in maniera (sembra) quasi accidentale. Eppure quello è il nucleo del film, fin dal primo viaggio in macchina con Seeger lo si capisce chiaramente. Nel suo svolgimento, però, il passaggio appare brusco e frammentario. Negli intermezzi c’è solo la musica a (non) dare spiegazioni. Insomma, mancano le ragioni profonde della svolta. Mancano i nomi, dicono i “dylaniani”, le tappe fondamentali del percorso di Bob da giovane di talento a icona generazionale. Buchi di sceneggiatura tappati con i capolavori del Santone. Difficile pensare, dato che lo stesso Bob Dylan ha seguito la stesura della sceneggiatura, che James Mangold non avesse a disposizione materiale a sufficienza per coprire quelle mancanze con la cronaca. E se fosse stata proprio la vicinanza di Dylan al progetto la causa di quelle omissioni (Marco Giusti su Dagospia ha notato l’assenza dei vizi del cantante all’interno della narrazione)? Chissà.
Qualcosa di simile lo stiamo vedendo anche con M – Il figlio del secolo. Le cose “così come sono andate” come unico metro di paragone di un’opera che, per quanto accurata, rimane finzione. Si possono criticare, per carità, le scelte dei registi (Joe Wright lì, Mangold qui), ma non possiamo pensare che il manuale di storia sia il codice privilegiato per parlare di una rivoluzione. E fa strano, nell’epoca della sovraesposizione di ogni artista sui social, vedere i commenti al film. “C’è troppo poco della vita ‘vera’ di Dylan”, si dice, quando oggi si rinfaccia a ogni cantante di non parlare con la musica, ma con la cronaca, gli amori, gli scatti postati sui social e tutto il circo che si attiva quotidianamente intorno alle star. Sicuramente le cose non sono andate così, nella carriera di Bob Dylan. Senza dubbio ci sono state le ore passate ad ascoltare Woody Guthrie e gli altri, le serate storte, gli incontri davvero decisivi e trascurati da Mangold. Ciò che non manca, però, è la musica. E con quella il “suo” Dylan parla davvero. Fermo nella volontà di andare sempre contro, come gli ha consigliato Johnny Cash: “Voglio essere tutto ciò che gli altri non vogliono”, la sintesi del suo atteggiamento. James Mangold sembra prendere sul serio il titolo del film. Del protagonista, alla fine, sappiamo poco. Di come nascano capolavori come Masters of war o The Times They Are a-Changin’ non c’è certezza. Timothée/Dylan scrive e suona incessantemente. Per lui c’è solo la musica, tutto il resto ha un valore relativo. Nell’epoca della vita prima dell’arte, quello di Mangold resta un film per niente contemporaneo. Ma questo non ci sembra un difetto.