Il conte di Montecristo è una delle storie più amate di tutta la letteratura mondiale. E ancora oggi continuano ad esserne prodotte e inventate versioni diverse, nel campo di ogni arte, dal cinema, alla musica, al teatro, alla canzone d’autore (è appena uscito, non a caso, il brano “Montecristo” scritto da Jovanotti, mentre ieri sera è andata in onda su Rai 1 la terza puntata della serie dedicata proprio al grande romanzo di Alexandre Dumas). Sono tanti gli ingredienti che rendono questo monumentale romanzo (scritto in collaborazione con Auguste Maquet, la cui pubblicazione a puntate iniziò nel 1844) un capolavoro difficilmente superabile, ed al contempo divenuto così popolare da essere entrato nel cuore di tutti, almeno di tutti coloro che popolano una vasta parte dell’Europa occidentale. La sua pubblicazione in puntate risale al periodo compreso tra il 1844 e il 1846. Ad essere raccontato è il trentennio che precede la pubblicazione, ovvero la restaurazione borbonica ed il regno di Luigi XVIII in Francia. A ben vedere, come in pochissimi altri romanzi (pensiamo ad Anna Karenina di Tolstoj, o a Il signore degli anelli di Tolkien) sembrerebbe che ne Il conte di Montecristo ci sia tutto: l’amore, i soprusi del potere, l’odio, l’ingiustizia, la disperazione, la sete di vendetta, la voglia di riscatto, la libertà e il libero arbitrio, la povertà e la ricchezza, la gelosia, l’amicizia e i miracoli che riesce a fare. E il perdono. La leggenda vuole che la storia sia ispirata alla vera vita di Pierre Picaud, ma questo dettaglio, per chi si avvicina alla lettura del romanzo, rimane un particolare di poco conto, ed anzi, la finzione, la capacità di affabulazione e la meraviglia che Dumas riesce ad orchestrare sulla carta risultano talmente avvincenti da rendere del tutto irrilevante il fatto che tali vicende siano accadute realmente oppure no.
Sinteticamente potremmo ripercorrerne la trama: il romanzo racconta la storia del giovane Edmond Dantès, giovane marinaio di diciannove anni e primo ufficiale della nave commerciale Le Pharaon (in procinto di essere promosso capitano) che sbarca a Marsiglia per convolare a nozze con l’amata Mercèdes. Viene tradito da alcuni amici invidiosi della sua fortuna professionale e sentimentale che tramano contro di lui congetturando una lettera in cui egli viene tacciato di essere un cospiratore bonapartista. Dantès viene allora condannato alla reclusione e condotto nottetempo nel Castello D’If, dove trascorrerà quindici anni nella solitudine e nella disperazione, fino a quando riuscirà ad evadere grazie all’aiuto prezioso (e poi alla morte) dell’Abate Faria. Scoprirà un tesoro nascosto sull’isola di Montecristo e, una volta divenuto ricchissimo, tornerà in Francia per ritrovare la sua amata e vendicarsi di coloro che avevano tramato alle sue spalle. Acquisterà molte identità, e alla fine, grazie alla bontà di un cuore che le amarezze della vita non saranno riuscite a vincere, risparmierà ed anzi aiuterà le sorti di coloro i quali gli erano rimasti fedeli e che avevano provato a far cadere le accuse montate ad arte contro di lui ai tempi del processo. Questa storia continua a rappresentare una grande mappa fitta di interrogativi e di questioni esistenziali per chiunque vi si immerga. Ma il sempre rinnovato interesse nei suoi confronti deriva dal fatto che il romanzo mette a fuoco seriamente alcune delle questioni con cui l’uomo ha a che fare da sempre, e che tormentano la vita di tutti, anche del più quieto e “persuaso” tra noi. C’è il rischio, oggi più che mai, che il rammollimento dei cuori, disabituati alle sfide, alle passioni e alle tormente che genera la tenacia di inseguire i veri sentimenti, (cuori sempre più infartuati di un benessere acquisito a suon di “illetargimento” degli organi vitali, e di “vite-pacifiche-e-collaudate” vendute a buon mercato) faccia scadere nel dimenticatoio degli oggetti indesiderati persino i rovelli interiori che fanno dell’essere umano, appunto, umano, e non semplicemente “essere vivente”. In particolare, la storia di Edmond Dantès racconta prima di tutto la grande ingiustizia di un uomo che si vede sottrarre tutto, da un giorno all’altro, a causa di un potere che abusando dei suoi strumenti lo deruba del futuro. E di come quest’uomo non cede del tutto alla disperazione, ma attende nell’ombra e nel silenzio, conservando intatto il suo unico vero amore, sperando di tornare a vivere la vita che gli è stata ingiustamente portata via.
Ecco il succo della storia di Dumas: l’amore come “insostituibilità”, e la vita come destino di fede, sofferenza, e coraggio. Senza la fede, Dantès non avrebbe potuto attendere quindici anni sperando di tornare a Marsiglia, e pregando nel freddo della sua cella con questo solo sogno nel cuore. Senza il coraggio, non si sarebbe fatto gettare in mare fingendosi l’amico Faria morto per tentare di raggiungere l’isola di Montecristo. E senza il perdono, non avrebbe potuto portare a termine il suo destino. Questo è ciò che lascia senza parole, forse oggi più che ieri, di fronte ad una trama tanto ricca di intrighi e colpi di scena. Viene da pensare ai versi di una grande poetessa russa, Anna Achmatova, che in una delle sue liriche più appassionate confessa, con toni solenni: “Vi avverto che vivo per l’ultima volta”. Dumas ci consegna un uomo per cui esiste un solo amore. Una sola via. Un solo destino. Una sola terra. Non esistono vie alternative per il giovane Dantès, non esistono amori di rimessa, sostituzioni possibili. Non esistono altre vite cui poter tornare che non siano la sua, quella che gli viene rubata ingiustamente. Il romanzo di Dumas ci suggerisce ancora e per sempre, che l’unicità, e la fedeltà alle cose, e alle persone, e ai sentimenti, sono la sola possibilità di vivere autenticamente la vita, e poterla desiderare fino in fondo, anche quando è brutta. Perché forse una sola è la vita che ci è destinata. E ha un solo volto. E una sola occasione.