Ai responsabili di Terrazza Aperol non ho detto di essere un veneziano nato e cresciuto nell’isola. Non ho neanche detto loro che lo spritz generalmente lo preferisco al bitter - quindi al Campari, o al limite al Cynar - perché questo mestiere, come quello del cuoco, è un gioco che va preso terribilmente sul serio. Per chi non avesse mai vissuto almeno un giorno in laguna vale la pena fare una premessa: mangiare a Venezia sa essere una mezza tragedia per tutti, anche per chi abita la cittò. Nella maggior parte dei casi ti trovi a dover scegliere tra proposte dell'alta ristorazione tendenzialmente irraggiungibili e locali di pessimo gusto con il buttadentro, le glacette in vista per impressionare i forestieri e piatti scaldati al microonde. Tra un conto saldabile a rate e le trappole per turisti tendenzialmente c'è la via del digiuno.
È con queste idee che ci siamo presentati da Terrazza Aperol, in Campo Santo Stefano a Venezia. Il locale ha un paio di sale interne e un plateatico sorvegliato dalla statua di Niccolò Tommaseo, quella che i veneziani chiamano il cagalibri per via della grossa pila di tomi che gli spunta da sotto il cappotto, un espediente dello scultore Francesco Barzaghi per rendere l’opera più stabile. L'invito è per due, ore 13.
A una prima occhiata pare di trovarsi davanti all’ennesimo locale per le masse, con i piccioni che saltano sui tavoli appena liberati in cerca di briciole, dove i turisti vengono massacrati a colpi di lasagne surgelate da buttare giù con il cappuccino a 7 euro. A guardare un po’ meglio però, dei segnali incoraggianti ci sono: il menu esposto per esempio, protetto da una piccola teca. Lì leggiamo di piatti ricercati e semplici, a prezzi più che adatti, forse addirittura bassi. All’interno l’ambiente è ricercato nel senso più vero del termine: i lampadari sono stampati in 3d con una plastica arancione ricavata da vecchi vinili promozionali di Aperol, il tavolo a cui sediamo è realizzato con il legno di briccole riciclate, una parete è stata dipinta dai ragazzi dell’Accademia di Belle Arti a seguito di un concorso indotto dai dirigenti del locale. In breve, è la potenza di un brand che si mostra leggero ma non per questo sciatto.
Ad accoglierci troviamo Marco: preparatissimo, sveglio, una targhetta col suo nome in giapponese sul petto perché a Venezia ci è venuto tanti anni fa per studiare lingue orientali. Scopriamo che presto ci troveremo assieme a Sanremo durante la settimana del festival, dove lui terrà masterclass di bartending per Costa Crociere.
Il pranzo
Cominciamo subito con uno spritz Aperol, il primo che mi trovo tra le mani dopo qualcosa come quindici anni: fresco, giusto, non troppo zuccherino, leggero. Poco dopo dalla cucina arriva un primo piatto di cicchetti: saor, seppioline, polpette di ossobuco (“perché comunque siamo Campari e abbiamo un forte legame con Milano”) e poi baccalà mantecato e una focaccia ripiena. A dirigere, in cucina, lo chef Samuele Silvestri. A presentare le portate il sous chef Andrea Dei Rossi. Il baccalà è cremoso, quasi troppo per chi è abituato alla mantecatura con l’acqua, una perversione da veneziani. Il saor è giusto, perfetto. La polpetta buonissima.
Proseguiamo con due antipasti: salmone, caviale di aringa (“perché regala un gusto affumicato, che rafforza il sentore del pesce che lavoriamo noi”), porro e olio di porro; in un altro piatto una tartare con nocciola, guarnita con pecorino e maionese all’aglio nero. Siamo nel trip, guardiamo le portate come fossimo a Masterchef e le mangiamo con l’attenzione che meriterebbe ogni piatto cucinato con amore.
Passiamo così al primo: uno spaghetto con crema di cavolo nero, tartare di gamberi rossi e una foglia di cavolo nero fritta - leggerissima - a guarnire, forse la portata migliore e di certo la più riuscita stilisticamente. Il cavolo viene lavorato nel ghiaccio per far sì che ne rimanga il colore brillante, i gamberi sono squisiti, sembra di stare in Puglia. A questo punto proseguiamo con dei tortellini al ragù, ottimi. Per chiudere ci viene proposta una fugassa veneziana, artigianale, in cui i canditi sono stati sostituiti da Aperol analcolico gelificato. Il tutto annaffiato da una bottiglia di Dorona, un vitigno recuperato a Venezia che produce questo vino estremamente piacevole, minerale e deciso, roba per la quale ci si può commuovere anche senza essere degli appassionati di enologia. Chiudiamo con un cocktail, un negroni chiarificato, ormai del tutto conquistati dall’esperienza.
Terrazza Aperol va ben oltre le aspettative che sarebbe lecito avere da Campo Santo Stefano, dal sito, dalle recensioni online e da qualsiasi idea vi siate fatti sul posto anche rispetto all’offerta veneziana. È una delle poche vie di mezzo tra i locali storici, di classe e impegnativi come Fiore, l’Osteria Santa Marina, Venissa e l'interminabile serie di trappole per turisti che servono schifezze del discount a prezzi da ristorante.
Da Terrazza Aperol puoi fare quel pranzo di lavoro con un cliente. Puoi portarci qualcuno a cena, puoi berti un cocktail fatto a modo, sia un classico - perché il bar ha a disposizione tutto il catalogo Campari - che una buon numero di twist. Puoi farlo se abiti a Venezia, se sei di passaggio. È difficile, in una città in cui “puoi esporre in vetrina un paio di palle e la gente si ferma a comprarle”, trovare locali che lavorano per far tornare il cliente, per farlo appassionare. Si punta piuttosto ad approfittarsi del malcapitato con la convinzione che non ritornerà mai più.
In questo caso succede il contrario: Terrazza Aperol è pensato per farti stare bene, per essere l’emanazione di un marchio che ha più di un secolo di storia. Giusto celebrare a Venezia, giusto farlo in un locale così che poteva essere un non luogo e si dimostra invece un locale ben integrato nella città, capace di accoglierne la tradizione sia in termini concreti - con una cucina ben pensata, varia e in continua evoluzione - che attraverso le giuste scelte stilistiche.
Non solo vale la pena andarci, è anche consigliato tornare.