Che poi se mangi mentre ascolti Brothers in Arms dei Dire Straits o Comfortably Numb dei Pink Floyd, difficile uscire triste. Il localo è piccolo a pochi passi da via Irnerio, nei paraggi la sede della casa editrice Zanichelli, poco più in là porta San Donato. Per arrivare incontriamo in bus qualche amico, casualmente, che scenderà un paio di fermate più in là. Una si occupa di abbigliamento e gadget vintage vicino San Giovanni in Monte, credo con una specializzazione in anni Ottanta e Novanta, l’altra si occupa di social media e copy writing per aziende. Il bus è pieno, scendiamo, tre minuti dalla fermata e ci siamo. È lui? Sì, l'Odd di Bologna. Piccolo tavolo alto, forse dieci posti, un ragazzo dentro muove il labiale mentre prepara qualcosa, da qui pare stia suonando il piano. Entriamo ci sediamo e guardiamo il menù. Ora il punto è provare a capirci qualcosa, dello street food. Street Food non è solo una scodella di riso fritto con verdure a sentimento cucinato in strada in India nei video che vedete su Instagram. Street food non è solo l’hot dog o qualche altro piatto nazionale americano. Quando si parla di cibo di strada si può pensare più a un modo di intendere il cibo al di là dei fighettismi e quindi: porzioni ragionate per una singola persona, morsi che abbiamo un senso, con tutto quel che devi assaggiare a ogni boccone, una scaletta dei sapori, prima arriva un ingrediente, poi un altro, quindi salivazione, goduria (goduria, non food porn) e infine sazietà. È una scienza e un po’ un’arte. Quindi l’Odd, vale la pena dirlo subito, ha già vinto, è lo street food definitivo. Andiamo con ordine.
Prima gli amuse bouche: un cucchiaino con sopra del vin brulé sferificato e limone candito, praticamente un cicchetto di inverno, e un bacio di dama salato con pesto e parmigiano, sostanzialmente il biscotto della felicità. Questo nell’attesa, mentre ci portano una bionda e un Sidro british vintage Henry Weston. Noi abbiamo faticato a scegliere, che è un altro modo per dire che torneremo presto. Il menù si divide in antipasti, panini e dolci, quindi due, due e due. Per iniziare lo 0-12, un bombolone salato al ragù e parmigiano reggiano che sembra uscito da una mia strana perversione gastronomica. È la sfera perfetta, è il globo crucigero della bontà. Di impatto, abbondante ma molto diretto. Invece l’altro antipasto è più raffinato: Pumpkin, una tartelletta di frolla al parmigiano, zucca affumicata, Blu di Capra, polvere di cipolla bruciata, noci. Qui c’è quel che si diceva prima, la scaletta dei gusti. Senti l’asciuttezza della frolla insieme al blu di capra, la cipolla e la dolcezza della zucca, le noci. Un concerto (per forza, se c’è una scaletta). Qui, circa, è quando sentiamo i Dire Straits.
Poi i panini, con i bun perfetti, morbidissimi ma scuri, segno che al morso un minimo di resistenza in superficie la sentirai. Una sorta di croccantezza volute ma anche gestita, sottilissima. Prima una novità, Galles. Un bun con agnello brasato, maionese ai funghi, finocchio in osmosi e sciroppo alle gemme di pino. È come mordere un bosco in cui si è perso un agnello, mordi l’innocenza avvolta in una laccatura di resina, hanno reso commestibile Cappuccetto rosso. Senza parole. L’agnello e il pane, insieme, sono tutto ciò che potete chiedere quando uscite fuori a cena, soprattutto perché rispondono alla domanda più bastarda di tutte: no, non avrei saputo farlo a casa. E quindi ne vale la pena. Poi c’è Armonia, hamburger di scottona (160 gr) e poi un terzo di felicità, un terzo di cazzimma e un terzo di “socc’mel”. Hamburger con… era così buono che l’ho dimenticato. Ma ho la foto eccola. C’era una marmellata di fichi. L’hamburger più buono mangiato a Bologna e in generale da tempo. Intanto si sviluppa in modo verticale, dando verticalità anche all’esperienza, costruita con moltissima cura. Non sei lì a insozzarti la faccia manco stessi strappando la ciccia da una carcassa nella savana. È pieno, ragazzi se è pieno, ma è pulitissimo (come un brano di Mozart).
Poi i dolci. Sottobosco, un sableé al cacao, Yuzu, cremoso al cioccolato bianco del Madagascar delattosato, vaniglia, composta di mirtilli di bosco, limone candito. Boh, praticamente un romanzo un postmoderno, non ci capisci niente ma ti piace. Tantissimo. Il cioccolato bianco ha perso completamente la sua natura burrosa e stucchevole, la vaniglia non è una bambinata che fa figo, il limone candito è sostanzialmente una caramella gommosa, divertente, dà leggerezza al piatto. L’altro è la Morte nera dei dolci, l’arma definitiva, una sorta di luna dorata. Temps Perdu, e cioè Proust: impasto madeleine bagnato con sciroppo di limone e vaniglia, crema pasticcera alla lavanda, petali di violetta cristallizzati. È la seconda volta che a Bologna mangio qualcosa che sappia effettivamente di lavanda. Una volta sono stati dei biscottini di frolla con dentro dei fiori, effettivamente, di lavanda. Stavolta una crema mai assaggiata prima, conservata in un pomo spugnoso sovrastato dai petali croccanti, un tocco di classe ma anche estremamente funzionali. Dieci su dieci. Il tempo di finire il sidro, pagare decisamente meno di quanto meritassero e, qualche portico più in là, già sentirne la mancanza.