A Bologna, quando fa freddo, rifugiati sotto i portici, i “portici sospesi nella tenebra”, che “crollano”, come scrive il poeta Davide Rondoni. E puoi anche tentare, senza prenotare, di trovare un posto in osteria. Se si è particolarmente fortunati, appena dietro Piazza Maggiore, a pochi passi da Ugo Bassi, in questi giorni chiusa per via dei lavori alla nuova linea del tram, il posto è un tavolo per due a Casa Merlò. Siamo all’angolo, vicino al passaggio, cautissimo e discreto, dei camerieri che portano i piatti nelle due sale dalla cucina. Abbastanza lontani dal vetro che dà su via de’ Gombruti per sentirci al caldo, sotto a lampade a parete a forma di piatto fondo e piano, un grande quadro hopperiano e i colori scuri sia della pittura che dei mobili, scuri e rustici. Odori e gusto sono tra gli attivatori più importanti della memoria, il cibo è un modo di ritrovare la propria anima. Dopo lunghi viaggi, dopo i passi nella neve, una zuppa risponde alla domanda filosofica: “Chi sei?” Casa Merlò è un viaggio a ritroso, così lo presenteremo. A partire dal secondo, risalendo fino all’antipasto.
Uno delle insidie della cotoletta alla bolognese, quando fatta alla buona, è azzeccare la proporzione corretta tra parmigiano, prosciutto e quantità di cotoletta per boccone. In effetti, il parmigiano rischia di coprire il sapore della carne e l’eccesso di sale del prosciutto crudo potrebbe impedirti di finirla. Non è il caso di questa cotoletta alla bolognese che, per quanto fina (sarebbe interessante proporla, ma è sempre più raro, più spessa e magari meno estesa), regge le quantità di prosciutto e parmigiano, naturalmente inferiori ai bordi ma calibrate alla perfezione al centro. Cottura impeccabile e carne tenera, con una panatura aderente all’interno. Un altro rischio è l’eccesso di liquidi, che fa scivolare la guarnitura sul piatto a ogni tentativo di inforcarla. Anche questo pericolo è stato evitato.
Passiamo al primo. Qui siamo a livelli altissimi, per alcuni persino blasfemi. È un concentrato di bolognesità ma declinata in una variazione scapigliata e, allo stesso tempo, elegante, una sorta di nobile eresia culinaria. Parliamo dei tortellini con besciamella al tartufo e crumble di funghi porcini, un piatto signature del locale chiamato “Purple truffle”. La composizione è abbastanza classica, con la parte croccante giustamente appoggiata alla superficie emersa dei tortellini, per metà circa completamente affogati nella besciamella (come si usa fare con i tortellini con la panna tradizionale). Il rischio era di rendere la pietanza collosa, soprattutto dopo averla masticata. Gli ingredienti invece si rispettano, anche se i funghi tendono a essere forse troppo delicati rispetto al tortellino e alla salsa. Magari sarebbe bastato tagliarli leggermente più spessi. Il chiaroscuro di sapori è notevole, e la besciamella si riconferma non solo una salsa madre, ma una salsa regina. Merita la scarpetta.
E arriviamo all’antipasto. Iniziamo col dire che è il migliore assaggiato finora a Bologna, un’autentica madeleine. Lesso di manzo e gallina, con insalata russa e brodo di gallina. Anche qui partiamo dai problemi: la maionese può essere nauseante e coprente, la carne può essere dura e tenace, il brodo può essere fin troppo liscio e acquoso. Niente di tutto questo. Il brodo è grasso, profondo, atavico. La carne è tenerissima, coppata e saporita. L’insalata russa è equilibrata ed elegante, nulla da gastronomia di quartiere. Il brodo viene portato a parte, versato in una tassa di ceramica. Peccato non aver preso i tortellini (portati al tavolo coperti con un coperchio). Se il brodo è lo stesso, il livello sarà sicuramente altissimo. Madeleine, abbiamo detto, perché è il pranzo della domenica, il brodo fatto in casa e la carne utilizzata per il brodo servita a piatto, con una salsa tonnata o con del limone, capperi e poco altro. Quel che serve alla cucina non è solo la sperimentazione, ma anche la storia, un racconto, i piatti devono avere qualcosa da dire, non solo stile da sfoggiare. Bello l’impiattamento ma ancora meglio la giustapposizione di sapori che non si spostano dall’altra parte del mondo ma vengono a cercarti nel nido bachelardiano della tua memoria gustativa.