Quando vivi all’estero, le vacanze in Italia non sono mai vere vacanze. A meno che non viaggi in incognito, se torni a casa è tutto un tour de force tra parenti, amici, gli amici degli amici e persino quelli dei parenti. È la regola: scendi e ti fai vedere, sennò sono guai. Per questo le famiglie acquisite all’estero, la tua bubble di migranti che vive le tue stesse gioie e i tuoi stessi dolori, non ti metterà mai il broncio se torni e decidi di segregarti in casa per una settimana a riequilibrare i chakra, o nel mio caso, a guardare per la milionesima volta una stagione a caso di Friends. L’importante è che poi, quando te la senti, organizzi una cena corale a base di pecorino, guanciale, e Amaro del Capo. Non necessariamente in quest’ordine. Nella mia bubble di migranti c’è l’amica Simona, una talentuosa illustratrice pugliese che tra le tante cose, mi ha insegnato che gli agenti atmosferici non ‘’avvengono’’ bensì ‘’vengono portati’’. ‘’Meh tranquilla, lunedì porta sole’’, oppure ‘’No, raga’ niente gita, sabato porta pioggia’’. In questa torrida estate 2024 però invece di portare sole o pioggia, le è stata commissionato di portare una Fiat Punto Cabriolet del 1996, senza aria condizionata né servosterzo ma con stereo a cd e bluetooth, dalla Toscana alla Puglia. Un’avventura che ho abbracciato con infantile eccitazione. Il mio viaggio ha avuto inizio nell’aeroporto di Villafranca di Verona, dove sono stata prelevata dal signor Tommaso Ciccarelli, originario di Castel di Sangro, in Abruzzo, e trasferitosi in Veneto negli anni Sessanta per perseguire la carriera da meccanico dell’aeronautica militare Italiana. Ha raccontato con prezioso accento abruzzese, mai perso: "All’inizio, quando cercavo casa a Villafranca leggevo cartelli con su scritto 'Non si affitta ai terroni'. Poi ho incontrato Marina, ci siamo innamorati, sposati e finalmente a lei, che era di Verona città, hanno affittato casa. Abbiamo avuto insieme due figli e da qui non me ne sono mai più andato. Ora passo l’estate ai Brunelli, una contrada che risiede sotto il comune di Bosco Chiesanuova, in Lessinia, dove ho ristrutturato una casa dalla tipica architettura cimbra". E proprio a Bosco Chiesanuova dal 1995 si tiene il Festival della Lessinia, ideato da Alessandro Anderloni, dedicato ai filmaker che raccontano con i loro film la vita, la storia e le tradizioni in montagna. Nella contrada ho conosciuto la comitiva di Tommaso, chiamato affettuosamente dagli amici ‘’Tommi’’, con la quale sta vivendo un’inedita spensieratezza che mai si era sognato di avere.
Ho salutato la Lessinia con una carezza sul muso di una vacca maculata, e l’indomani ho preso il treno verso Firenze, dove mi aspettavano le amiche Andree e Stefania, accompagnate dalla cana Mia, anche detta ‘’Topo’’. Abbiamo soggiornato in un b&b non troppo lontano dalla stazione, dove un tomboy di nome Caterina ci ha accolte recitando a memoria le informazioni turistiche più utili per sopravvivere al caldo. L’accento era toscano, ma la sua provenienza partenopea. Dopo esserci rifocillate, abbiamo fatto tappa in un bar assai bizzarro, che presentava all’ingresso un distributore di perizomi col pizzo. Con 40 gradi percepiti, il proprietario ci ha offerto due shottini a testa di Rhum, divisi però in due perché la guidatrice designata si è confermata una personcina affidabile. A noi si è aggiunto Gigi, il mio compagno di (s)ventura e tutti insieme siamo andati a guardare le stelle presso la trattoria di sor Paolo Ristorante & Cantina, a San Casciano. Lo so, la storia delle stelle non regge. Beh, una mucca accarezzata e l’altra mangiata. Amici vegan, abbiate pietà di me. Il giorno dopo l’abbuffata sotto il firmamento, le ragazze ci hanno accompagnati alla stazione di Prato, dove puntuali sono arrivati Back from the Past Simona e Marco, a bordo della famigerata Fiat Punto Cabrio, 1996. Vedendoli con la cappotta abbassata ma col cappello in testa ho subito pensato ‘’Sono Gloria, ho lasciato il cappello sul tavolo, accanto alla frutta’’ (cit.) e quindi al primo autogrill ho sborsato diciannoveeruroenovantanovecentesimi per un simpatico cappello in paglia. Dopo due ore di sole a picco, e lasciato in un punto imprecisato dell’autostrada l’iniziale entusiasmo, un principio di insolazione mi ha tramutato in un personaggio leggendario, metà Dr. Gonzo e metà Hunter S. Thompson ma senza uso di additivi. La prima vera tappa magnereccia a bordo della cabrio si è spesa nella rinomata pizzeria di Caiazzo, Pepe in Grani, di cui vi avevo parlato qui. Reduci da quell’indimenticabile esperienza gustativa, il viaggio attraverso la Campania ci ha portati al primo caseificio casertano disponibile, dove, per colazione, abbiamo acquistato una mozzarella di bufala ciascuno. Senza alcuna dignità abbiamo scolato il siero e addentato nel parcheggio di un autogrill, sotto gli occhi attoniti di una signora di Pavia, le mozzarelle, masticandole in maniera quasi erotica. E fu così che la mozzarella a cosce aperte fu inventata.
Dopo aver smanettato per qualche ora, siamo riusciti a collegare lo stereo Bluetooth al telefono, donando al road movie la degna colonna sonora. Tanti i pezzi anni Novanta che si sono succeduti: Professional widow, California love, Killing me softly, Nord, Sud, Ovest, Est, ecc. L’asso nella manica però l’ho tirato fuori a pochi chilometri da Sorrento, la successiva tappa sulla tabella di marcia. Quando infatti gli animi frizzanti si sgasano c’è solo un gruppo (italiano) in grado di riportare i livelli di anidrite carbonica a dovere: Il Duo Bucolico con il loro pezzone I tempi d’oro. Siamo atterrati dunque nel campeggio Nube D’Argento a moderata velocità, abbiamo depositato i bagagli nel bungalow già climatizzato, indossato i costumi da bagno stropicciati, e via tutti nella piscina colma di bambinetti col super liquidator. Li abbiamo corrotti uno ad uno innescando una guerra d’acqua che neanche l’ultimo giorno delle scuole medie. Sorrento è chic ma non troppo. È la sorella timida della diva Positano, che mostra ai turisti i suoi grandi limoni, veri e stampati su stoffe mediocri, lavorati in ceramica, disegnati sui ventagli, incastonati nelle perle, spremuti nelle granite, masticati e poi abbandonati sui marciapiedi. A Sorrento ci si va per i limoni e per i suggestivi vicoli stretti, colmi di ‘’pose’’, non per le spiagge. Per farci il bagno infatti abbiamo optato per Ischia, raggiunta in traghetto, dove una guida locale di nome Vittoria Buono, ci ha accolti nella sua macchina con frizione a stacco alto, mostrandoci le bellezze nascoste dell’isola. Vittoria ci ha raccontato che dopo aver vissuto ovunque, dall’India alla Finlandia, ha avuto una folgorazione sulla via di Damasco che l’ha fatta tornare a casa. Pentita? Sì. Perché Ischia è bella, abitata da vecchi con le schiene di cuoio, ma trovare un lavoro stabile è difficile e l’inverno non perdona. Post cornetto ischitano acquistato nello storico Bar Calise che ha aperto le porte nel lontano 1925, abbiamo raggiunto lo splendido Castello Aragonese, un isolotto di roccia trachitica collegato all’isola attraverso un ponte di pietra di 220m e risalente al 474 a.C. Vittoria ha proseguito dicendo che dopo aver subito varie trasformazioni, a partire da quelle volute dal re Alfonso d’Aragona, le quali permisero di proteggere gli ischitani dagli attacchi dei pirati, si arrivò all’abbandono del castello durante il periodo dell’Unità d’Italia, fino alla simbolica data del 1911, quando fu messo all’asta e acquistato dall’avvocato Ernesto Nicola Mattera per 40.000 lire. Family affair a parte, oggi il castello è sede di eventi, mostre, e concerti.
La vera perla nascosta di Ischia però non è il castello Aragonese, bensì il bagno e trattoria ‘’Michele a Mare’’, che nel 1959, durante il suo soggiorno ad Ischia, Pierpaolo Pasolini descrisse così: ‘’Scendiamo verso il mare: tutto è buio, il mare sbadiglia qua sotto come un enorme cane addormentato. “Michele” sorge su delle palafitte: è deserto, ci sono solo figlie e amici del padrone: è la loro sera estiva, e, a pancia all’aria, chiacchierano nella loro misteriosa lingua. “Ne, Michè! ci sta da mangiare?” fa la mia guida, tremebonda per il suo prestigio, e perciò col piglio feroce del guappo. C’è, c’è. Si mangia anche bene. Michele si siede un po’ accanto a noi: ha la faccia ch’è tutta una parola ma non parla. Grasso, unto, nero, asmatico come un eroe di Andersen, dà poche notizie assolute. “Quanto costa qui la pensione?” chiedo. Fa la faccia mesta, abbassa gli occhi come recitasse mentalmente il Pater noster, minimizza col tono della noia, del risaputo, del normale, del modesto la risposta: “Tremila lì”[…]’’. Il bagno di rocce spianate continua ad accogliere generazioni di afisionados; comode scalette portano direttamente in acqua, e sulla palafitta la trattoria se ne sta ancora lì. Ad aspettarci, la degna erede di Michele, sua figlia Pinuccia. La faccia segnata come una mappa intagliata con un coltellaccio non ha dismesso per un secondo l’espressione di chi ha appena subito un’invasione di campo. Pinuccia è una matrona con la pelle consumata dal sole, scura come pietra lavica, capelli lunghissimi nero corvino, che tiene raccolti mostrando alle orecchie pendenti di corallo. Non esiste menù, non esistono richieste. Pinuccia ha mandato una ragazzina a portarci da bere. Una ragazzina che, incazzata tanto quanto lei, ha tuonato l’unico piatto disponibile: spaghetti allo scoglio. Abbiamo aspettato in religioso silenzio il tempo di cottura, mentre il mare si stagliava coprendo una superfice che supera il concetto d’infinito. Pinuccia non ha mai chiesto ma solo affermato che era ‘’tutto appost’’. Ci ha concesso la grazia di friggere per noi acciughe fresche, prese e portate alla bocca con le mani. Pinuccia, come suo padre, ha fatto poi i conti sussurrandoli a sé stessa, come un’intima preghiera. A fine pasto si è sciolta, raccontando di aver vissuto a Londra, ‘’quella vera’’, negli anni Settanta, e che la vacanza che ricordava con nostalgia era quella passata alle Barbados. Del bagno e della trattoria nulla era davvero Instagrammabile, ma meravigliosamente autentico, come un tempio chiuso al pubblico. Ad Ischia, da Michele ci dovete andare senza chiedere mai.
L’indomani, siamo ripartiti passando per la meravigliosa costiera amalfitana, costellata da corpi lunari di orientali col parasole. Ci siamo fermati poi a Salerno dove c’hanno scammato riempendo il serbatoio d’aria invece che di Gpl, e carichi di fame abbiamo attraversato la Basilicata, bollente e deserta più di Marte. Arrivati al paese del pane, Altamura, abbiamo assaggiato la leggendaria focazz, fatto carico di carboidrati, e ripartiti alla volta di Sava, piccola cittadina in provincia di Taranto, dove la famiglia di Simona ci aspettava con ghirlande di fichi d’india e stracciatella locale prodotta dal caseificio Olivaro. Consigli per gli acquisti: il lattaio arriva alle 9:00, e alle 8:50 già c’è la fila davanti al negozio. Affrontatela come dei lord inglesi al cospetto della famiglia reale, ne vale la pena. Descrivere il territorio tarantino a partire dalle campagne è una pugnalata al cuore. Sebbene la distesa cimiteriale degli ulivi secolari colpiti dalla xylella nel Salento non sia altrettanto devastante in quelle terre, gli alberi mostrano le fronde rosse, come fossero ricoperte da un velo di ruggine che ne sta risucchiando piano piano la vita. Lungo le strade il segno dell’uomo colpisce per l’incivile abbandono d’immondizia, riequilibrata dai gesti gentili di genitori e figli che abbiamo visto ripulire le incantevoli spiagge di Torre Borraco (dove il fiume, che porta lo stesso nome, sfocia direttamente nel mar Jonio), e quella della riserva naturale Salina dei Monaci, dove tra l’inverno e la primavera è possibile osservare la danza dei fenicotteri rosa. Oltre alla naturalezza di questi luoghi, meno massacrati dal turismo di massa rispetto allu Salentu, ho notato che per passare la famigerata ‘’prova costume’’ qui basta avere un corpo. Un corpo qualsiasi, non torturato da pratiche barbare quali zumba o power pump, ma un corpo libero di essere grasso, magro, tonico, budinoso. Just happy to be. Personalmente io ho sfidato la genetica, infischiandomene della familiarità diabetica ho infatti dato fiato a tutte le trombe glicemiche bevendo ad ogni ora del giorno il caffe leccese. Mai assaggiato? Spoiler: una tazzina di caffè, un bicchiere con dentro del ghiaccio e latte di mandola. Dalla mescita dei due liquidi nasce il nettare degli Dei.
In Puglia, al contrario degli agenti atmosferici, il cibo non viene portato ma accade. Faccio un esempio. Il giorno prima di ferragosto è d’uopo ammirare i fuchi d’artificio in spiaggia, fare il conto alla rovescia e poi tuffarsi in gruppo nel mare, al chiaro di luna. Un sogno, eh? Ebbene, non è completo se subito dopo non ti appare tra le mani un panzerotto. Il panzerotto, come il caffè leccese, le pucce, e i pasticciotti sono la conditio sine qua non del tuo soggiorno in Puglia. Cioè, se non li assaggi non è successo. Non tutto il cibo però ha un apporto calorico sufficiente per fare il giro nello spazio e tornare sulla Terra. Sia le ‘’paddotte’’ (in italiano cetriolo carosello) che il perfetto bilanciamento di fichi d’india e fichi normali (rapporto 1:1) assicurano la regolarità intestinale e il giusto apporto di fibre, vitamine e sali minerali. Una paddotta al giorno agevola la peristalsi più del contorno. La Puglia mi ha resa anche poeta. Una saggezza assolutamente sconosciuta ai tempi della mia prima volta in Apulia, quando, a vent’ anni campeggiai assieme all’amica Mary a Torre dell’Orso. Era il periodo di "Bella preparate stasira c’è na festa", delle canne di fumo, della pizzica a Melpignano. A proposito. La pizzica non la potevo perdere, ma da grande si fanno scelte più oculate. Abbiamo saltato a piè pari il bordello di Melpignano, preferendo una serata sì di zompi, birra, sudore, fisarmoniche e tamburelli, ma nell’incanto più mesto di Cutrofiano. Oltre a Sava, Manduria, Torre Ovo, anche Avetrana, colpita per anni da un turismo dell’orrore dopo i fatti del 2010, sono immerse in un fascino decadente che fa da preludio a quello della città di Taranto. Nella parte vecchia, davanti al porto, muri del pianto custodiscono a fatica le abitazioni abbandonate e in cerca di adozione per pochi spiccioli. Gatti randagi, sfamati dalla grazia degli abitanti si aggirano come fantasmi benevoli. Taranto cerca riscatto. Lo si vede dai piccoli locali curati che sorgono in mezzo ai vicoli. Sono i giovani che non vogliono lasciare il sud in preda all’assenza, al disinteresse di uno stato che sventola le sue bandiere di colore diverso, senza proteggerlo. È il caso dei fratelli Domenico e Andrea Sciroccale, che hanno investito su questa città millenaria attraverso la creazione di Gata, Galleria d’Arte Contemporanea, Residenza Artistica/b&b e bar, situata nel borgo antico. Si legge sul sito ‘’La nostra mission è quella di offrire una vetrina agli artisti emergenti e non, italiani e stranieri’’. La Marina Militare stessa cura l’accoglienza offrendo visite guidate gratuite nei suggestivi ambienti del Castello Aragonese. Nel nostro turno abbiamo incontrato due artisti in visita: la scultrice Irene Messia, nipote del pittore Vincenzo Messia che affrescò negli anni Settanta il palazzo del governo di Taranto, in compagnia del musicista Nicola Benigni, entrambi parte del neonato collettivo artistico romano Nina Vian.
L’arte ci salverà ancora? Forse. Le possibilità sembrano aumentare se questa scorre nelle vene di diverse generazioni. L’ultima parte del viaggio la dedico proprio all’arte e, in particolare alla famiglia Pichierri, ramo materno dell’amica Simona. Girando per Sava con lei e i suoi fratelli, Gianluca e Giuseppe, ci siamo imbattuti in una statua in bronzo intitolata ‘’Il pianto’’, che raffigura una donna nuda, in ginocchio e con le braccia conserte, tra le quali poggia la testa in segno di rassegnazione. Eseguita in memoria dei morti sul lavoro, la statua era stata commissionata dall’Amnil al Maestro Cosimo Pichierri, detto Mimino, scomparso prematuramente a giugno di quest’anno. La famiglia di Buccoliero Pasana e Pichierri Giovanni originariamente contava nove figli: Giovanni, Concepita, Rosaria, Battista, Cosimo, Giuseppe, Osvaldo, Teresa e Patrizia. In ognuno di loro l’arte ha trovato spazio declinandosi in varie espressioni e senza mai pretendere. In casa di Simona, i quadri della mamma Teresa, scomparsa a neanche sessant’anni, rivestono le pareti con nostalgici paesaggi che cambiano col mutare delle stagioni. Il suo lascito, ritrovato nelle mani della figlia, vive nel ricordo dei fratelli. Siamo andati a visitare l’atelier domestico del Maestro Mimino: un regno che racchiude la sensibilità di un artista-artigiano autodidatta, attraverso sculture, quadri e artefatti in cui anche il più povero dei materiali ha trovato nuova vita. La moglie Teresa ci ha raccontato che il marito, con grande sacrificio, aveva aperto una bottega per insegnare l’arte ai giovani di Sava. Un laboratorio che non ha trovato il sostegno economico sufficiente per andare avanti. ‘’Mimino ci stava male’’ – ha detto Teresa, vestita a lutto. In questo paese di provincia, spillo nel tacco dello stivale, la famiglia Pichierri incolpa l’ignoranza e l’invidia. Solo tra fratelli si parlava la stessa lingua. Ce lo ha confermato zio Osvaldo, altro grande artista autodidatta e pregevole marionettista, che dopo averci raccontato gli anni duri di gioventù da terrone a Milano, seguiti da quelli altrettanto pesanti da operaio dell’Ilva, Moloch fagocita-vite, ha abbandonato per un attimo il suo sorriso pensando al fratello, confidente e amico scomparso troppo presto. Ora è solo a girare per le campagne a raccogliere lamiere, pezzi di legno, e materiale di scarto che tramuta in rose e marionette. Nuvolino il sognatore, il Nonno (sporcaccione) e la Nonna, Zio Chicco il beone sono alcuni dei burattini creati da Osvaldo, che assieme alla moglie e alle figlie hanno fatto girare per le scuole di Sava, insegando ai bambini l’importanza delle tradizioni, della cura dell’ambiente e dell’amore per la terra. Si dice che quando vai al Sud piangi due volte: quando arrivi e quando te ne vai. Io a Sud non ho mai smesso di piangere, per stupore e amarezza. Una terra che si alimenta della sua bellezza, che sopravvive nei racconti dei vecchi e nella speranza di chi rimane. Una terra che non deve niente a nessuno e a cui tutti devono qualcosa.