La pizza più buona del mondo? Quella di Franco Pepe. Seguendo la più recente linea temporale del successo di Pepe in Grani, partiamo dal 2014, quando il premio Pulitzer Jonathan Gold definì proprio la pizza di Franco Pepe la migliore del mondo. Nel 2016, poi, è arrivata anche la conferma della guida della Phaidon Where to Eat Pizza di Daniel Young, e nel 2022 la settima stagione della docuserie sulla gastronomia Chef’s Table ha dedicato 40 serratissimi minuti per raccontare l’alfa e l’omega dell’uomo e del pizzaiolo Franco Pepe. Una tappa a Caiazzo, antica terra fondata dalla leggendaria ninfa Calatia, non dunque poteva mancare. E che fosse una tappa tutta dedicata all’arte bianca lo sapeva bene anche il signor Gennaro, proprietario del B&B dove abbiamo pernottato per una notte, che appena scesi dall’auto ci ha chiesto: “Siete qui per mangiare la pizza, vero? Ci vengono da tutto il mondo”. Ed effettivamente, nel vicolo stretto e scosceso intitolato a S. Giovanni Battista dove si trova la pizzeria, una coda ordinata di persone ci ha accolti in ciondolante attesa. All’ingresso la manager annotava e riordinava gli eccitati viandanti. Essendo in compagnia di due chef, non potevamo far altro che scegliere il percorso degustazione che si declina in tre opzioni a scelta: Essenza, Scoperta ed Evoluzione. Scelte queste democraticamente pensate per diversa capienza di stomaco e portafogli. Ci hanno fatto dunque accomodare nella suggestiva postazione del Belvedere, incorniciata in un drammatico paesaggio in fiamme (letteralmente) dove abbiamo aperto il percorso con un rinfrescante flute di Spritz alla fragola (vermut bianco di Torino + essenza di fragola), panacea dell’insolazione da Punto Cabrio senza cappotta, accompagnato da un sublime cono di fritti.
Mariarosaria, Younes, Kevin, Dario, questi alcuni dei nomi degli operatori di sala che, come poeti stilnovisti, hanno spiegato ad ogni tavolo la pizza che si andava ad assaggiare. Tolta l’ormai leggendaria Margherita sbagliata e la Marinara Rivisitata dedicata da Franco a suo padre, il mio personale premio “Madelaine proustiana” va alla pizza Mediterranea, l’unica impiattata singolarmente, composta da scarola riccia, semi di zucca e una fettina di arancia. La missione di Franco, dedicata in parte a riaccendere attraverso il gusto antiche memorie, è stata portata a compimento con questo piatto che mi ha riportato indietro al tempo dei miei natali infantili, quando mio padre si incazzava come una biscia se rifiutavo di assaggiare l’antipasto dell’arancio condito. Il resto della degustazione però non ve la racconto perché una gita a Caiazzo ve la dovete fare da voi.
Dopo aver cenato Franco è arrivato al tavolo. A Franco Pepe della perfezione non frega nulla. Di quello che dicono gli altri non frega nulla, dei trend, della pizza instagrammabile gli frega nel senso che trova fuori luogo e snaturante tutto questo hype da social, che, diciamolo onestamente ha rotto assai i c*glioni. Franco, che ci tiene a precisare che è un pizzaiolo, non uno chef, dopo aver spiegato il concetto della sua cucina decostruita, dove ogni singola componente umana è fondamentale, ci ha portati nel suo piccolo regno domestico chiamato Authentica. “Negli anni ’70 nella pizzeria di mio padre avevamo un piccolo tavolo di legno vicino al forno, dove con un amico a fine serata ci si intratteneva a mangiare una pizza e raccontare di sé. Oggi, in questa sala, dietro questo tavolo parlo di me a otto commensali, che a loro volta si raccontano. Ogni sera l’esperienza è diversa, come le persone e le loro storie. Sono venute celebrità, anche dell’alta cucina come lo chef stellato David Munoz, e addirittura sono venute a mangiare otto suore (il mio pensiero è subito andato all’iconica e detestabile suora con la cicca in bocca de La grande bellezza sorrentiniana). Non si tratta di un’operazione commerciale. Ci sono solo due stanze per pernottare. Il senso è ritrovare l’esperienza del viandante. Accoglierlo, nutrirlo, trattarlo come ospite d’onore.” Quale posto migliore dunque per farci raccontare meglio la storia di Franco?
Franco, la tua pizzeria è ormai un tempio per i cultori della pizza. Quale pensi sia stata la chiave di volta per il successo?
In realtà più che di successo parlerei di evoluzione di un progetto, il fatto che poi piaccia a tutti può essere considerato un successo, sicuramente. La chiave è stata soprattutto nelle intenzioni degli anni ‘90 di capire che cosa della pizza stava cambiando; che il concetto di pizza come cibo per tutti senza guardare l'aspetto della scelta della materia prima e del topping, o la scelta delle farine, non funzionava più. In quegli anni capii che stavo vivendo un momento importante, quindi siamo andati a lavorare sulla ricerca della materia prima, sulla trasformazione, e sul lavoro del team e non sulla firma del pizzaiolo. La mia idea era di uscire dal concetto di pizzeria come luogo solo di confusione o per stare insieme. Volevo che diventasse un luogo di riflessione, per far capire che anche una pizza si fa con tanta ricerca e tanta dedizione, e che l’accoglienza del cliente è fondamentale. Questa forse è stata la mia formula vincente.
Ci descrivi una giornata tipo nella tua pizzeria?
La mia giornata inizia presto: io, davanti un caffè, primissime ore del mattino, 7-7:30, penna, block-notes e strutturo tutta la mia giornata. Innanzitutto, il briefing che faccio alle 9 con i miei ragazzi in segreteria: lì si parte con l'organizzazione della serata e quindi si affrontano problematiche, necessità e organizzazione. Otto ragazzi che lavorano insieme sullo svolgimento della serata. La segreteria stacca alle due e allo stesso orario già iniziano a entrare in pizzeria i ragazzi che lavorano in cucina per la trasformazione e le preparazioni delle materie prime. Alle 16:30 arrivano pizzaioli e fornai, alle 17 la sala, alle 18:15 è quasi tutto pronto poiché dalle 18:30 si aprono le porte, pronti ad accogliere 400-500 persone a sera.
Parliamo di trend culinari. Siamo nell’era dell’Instagram food, dove l’immagine sembra spesso contare più del sapore. Cosa pensi di questa tendenza? La pizza è mai diventata troppo “instagrammabile”?
Sì, oggi si sta sbagliando. Si sta confondendo il cliente e gli si sta consegnando uno strumento per valutare i pizzaioli attraverso i like e i followers. Si sta sbagliando e ne ho parlato nell'ultimo congresso di Identità Golose, dove ho spiegato che la pizza non è solo forma ma è soprattutto sostanza. Abbiamo bisogno di tornare a saper leggere il palato. Una pizza che è ben fotografata, ben fatta e sta in una foto su Instagram non per forza sarà buona o sarà giusta sia dal punto di vista nutrizionale che della digeribilità. Quindi oggi bisogna ritornare un po' a quello che era il passato, fare cioè il passaparola dietro l'approccio al palato.
In un mondo di apparenze e fast food, tu hai scelto la strada della tradizione ma anche della “disobbedienza”. C’è stato un momento in cui hai pensato che fosse troppo rischioso?
Forse sarò un folle ma non ho mai avuto paura delle mie idee. Non ho avuto la percezione del rischio né quando ho comprato il rudere e non avevo soldi, sognando la mia pizzeria, né quando ho lasciato l’azienda di famiglia per mettermi in proprio, e nemmeno quando ho trasformato la margherita in Margherita Sbagliata, quindi uno strappo con la tradizione. Ho disubbedito molto ma sempre lucidamente e con criterio.
Come hai trovato l’equilibrio tra tradizione e innovazione nelle tue creazioni?
Questa è stata la cosa più difficile, ovvero trattenere l’identità della pizzeria come luogo dedicato ad un cibo popolare, e della pizza stessa come piatto popolare. Perseguire l'innovazione lavorando sulla semplicità e non andando a modificare l'identità della pizzeria e della pizza è stata forse la chiave del successo. Io non volevo creare un locale diverso da una pizzeria, volevo che ci fosse un’evoluzione della pizzeria tradizionale. Quindi con preparazione, trasformazione della materia prima, formazione e accoglienza del cliente, sono riuscito a creare questo equilibrio tra tradizione e innovazione, senza mai abbandonare né uno e né l’altro. Faccio un esempio, sono 12 anni che impastiamo a mano migliaia e migliaia di pizze, però nella pizzeria utilizziamo tecnologia avanzata per altre cose, come per esempio il laser. Ho trattenuto il saper fare dell'uomo attraverso i sensi, ho investito sulla formazione del team che mi fa gli impasti, però utilizzo la tecnologia per altre cose.
In un’epoca in cui tutto sembra essere riproducibile, cosa rende la tua pizza unica? Qual è il segreto che non riveleresti mai a nessuno?
Sì, oggi tutto è riproducibile e infatti per me è una grandissima soddisfazione vedere la mia Margherita Sbagliata presente in tutto il mondo, nei menù di tanti pizzaioli che, non l'hanno copiata ma l'hanno imitata e me l'hanno dedicata. Questa per me è una bellissima soddisfazione. Tutto è riproducibile, ma non c'è un segreto per trattenere qualcosa, in realtà io dico solo che noi abbiamo una creatività che non può essere ricercata in un'altra persona, quindi sta tutto nella nostra creatività e nelle nostre competenze. Una delle cose che non direi mai è il blend della mia farina che è unico, la “0Pepe”.
La tua pizzeria è diventata una destinazione di pellegrinaggio per gli appassionati. Ma qual è il tuo rapporto con la fama? Ti senti mai prigioniero del tuo stesso successo?
Una delle cose che tutti i clienti mi dicono è che dopo tanti anni, io sono rimasto lo stesso. Quindi io un po' il successo me lo faccio scivolare addosso, soprattutto perché il successo stesso può essere pericoloso. In realtà mi piace vedere l'approvazione dei clienti quando mangiano una buona pizza. La sera mi fa più piacere ascoltare i complimenti, o chi mi chiede quanto è stato l'incasso della serata, dico questo per farti capire la persona che sono.
Quindi non sono prigioniero del mio successo, accogliamo 12mila-13mila persone al mese, è un feedback importante, e io non mi sento il peso di questa fama importante addosso, cerco di essere sempre quel Franco che è disponibile con tutti, e cerca di accogliere tutti nella sua Pepe in Grani.
C'è un aspetto in particolare che ti fa incazzare nel mondo della ristorazione oggi?
Un aspetto che mi fa incazzare, e l'ho detto pure in un'altra risposta, è che oggi il food si identifica con la comunicazione. Oggi il food è preda della comunicazione e soprattutto di tante persone che pensano di saper valutare un piatto o una pizza ma non lo sanno fare. Oggi siamo ostaggi della comunicazione sul food.
Quando non sei dietro al banco, dove ti piace andare a mangiare? Esiste un posto che riesce ancora a sorprenderti?
Io sono una persona molto semplice. Evito locali stellati, mi piacciono ristoranti dove si mangia bene e c'è una bellissima attenzione sulla trasformazione della materia prima. A volte mi sposto su Napoli, per esempio una semplice graffa di Chalet Ciro. Poi c'è la granceola di Terrazza Calabritto che è un piatto incredibile, vado lì solo per quello. Mi piace anche Mimi alla ferrovia, lo spaghetto di Lino Scarallo. Oppure a Somma Vesuviana c'è il grande percorso sul baccalà di Nonna Rosa, che è un'esperienza indimenticabile.
Il mondo della ristorazione è spesso associato a ritmi frenetici e stress. Come riesci a mantenere l’equilibrio tra lavoro e vita personale?
Una bellissima domanda. Io ci ho rimesso un po’ della mia vita personale, molti lo sanno, l'hanno visto pure su Netflix. Cerco di fare questo lavoro con tanta dedizione perché ci sono grandi privazioni, ma mi manca molto la mia vita personale perché ho dedicato tutto me stesso a questo progetto di vita che oggi è Pepe in Grani.
Guardando al futuro, come immagini l’evoluzione della pizza?
Noi ci sforziamo di alzare l'asticella su un prodotto così popolare. Dobbiamo fare attenzione perché l'evoluzione non significa mettere il foie gras sulla pizza. Per alzare l'asticella su un prodotto così semplice bisogna lavorare su una cosa importante, sulla formazione e sulle competenze. Purtroppo oggi in Italia non abbiamo seri corsi di formazione per pizzaioli, dove le nuove generazioni si possono applicare sull'aspetto tecnico-scientifico. L'evoluzione di un qualcosa oggi sta solo sui saperi, perché oggi si vuole mangiare e stare bene e perciò bisogna essere competenti. Non esiste il poter dire questa è la ricetta magica. In Italia la scuola istituzionale ha fallito su questo. Se non si istituzionalizzano dei principi, se non si parte con un progetto di preparazione e di formazione negli alberghieri per accogliere i ragazzi che vogliono fare un percorso da pizzaiolo, allora secondo me sarà difficile l'evoluzione della pizza. Dobbiamo poi rivendicare la figura del pizzaiolo, che è ancora una figura non definita.
Cosa significa per te “Authentica” e come è nata l'idea?
L’idea è nata perché quando ho aperto Pepe in Grani, ero venuto in questo vicolo per fare poco ma farlo bene, con pochi ragazzi. Era un progetto piccolo perché volevo interagire col cliente. Poi il progetto è cresciuto e da 7 ragazzi oggi siamo arrivati a 50, da poche persone siamo arrivati a 400-500 persone al giorno. Ho lentamente perso di vista quel progetto iniziale e un po' anche il contatto con il cliente. Allora, poiché c'era l'ultimo spazio disponibile, dove ora ci sono le camere, ho deciso di costruire di nuovo la mia pizzeria, dove solo a volte porto 8 ospiti e ricreo il racconto della mia pizza. È un luogo autentico dove non c'è la sala che ci divide e dove, oltre al gustare la mia pizza, c’è il racconto e c'è l'interazione con il cliente e la cucina.
La tua cucina funziona grazie al rapporto sinergico con i tuoi dipendenti. Quanto conta la componente umana per far girare tutti gli “ingranaggi”?
Far girare un gruppo di 50 persone, dalla mattina alla sera, non è semplice. Io ci lavoro moltissimo e a volte ho utilizzato anche lo psicologo del lavoro. Mi concentro molto sul gruppo e sulle responsabilità di alcuni di loro, e cerco di interagire dal punto di vista lavorativo e umano. Creare una grande famiglia è stata la forza per avere un gruppo sinergico e basato soprattutto sui rapporti umani, e non solo sull'aspetto lavorativo.
Che progetti hai per il futuro?
Il mio progetto futuro è godermi quest'ultimo quarto di vita e guardare da lontano quello che ho fatto. Significa consegnare il sapere ai ragazzi e ai miei figli. Spero che con Stefano e Francesca si possa portare avanti questo progetto. Poi sono tanti anche i ragazzi che mi seguono dal 2012 e che vorrei vedere andare lontano. Il futuro sta nel condividere quello che ho avuto nella vita e consegnarlo agli altri. Solo così si può rimanere immortali.