E così, dopo la crisi esistenziale per aver lisciato di poco Thom Yorke nella sua casa romana al Pantheon, ci siamo detti ‘what the hell I’m doing here’ cit. e giustamente abbiamo buttato l'acqua con tutto er regazzino partendo per una sana boccata d'aria nel Regno Unito, precisamente a Londra, per noi senza dubbio la più bella città del mondo. Ed è durante il nostro felice vagabondare per la City che ci siamo imbattuti nella Battersea Power Station, la vecchia centrale elettrica protagonista della copertina di Animals, il disco dei Pink Floyd del 1977. Quello del maiale che volava, per intenderci. Amici di MOW, ovunque voi siate, che vi troviate a camminare per le vie di Milano, Roma o Reggio Calabria, sappiate che noi stiamo per portarvi alla scoperta del ristorante di proprietà di uno dei cuochi più famosi della terra: Gordon Ramsey. L’edificio a cortina con due enormi ciminiere sulla facciata splende oggi al termine del suo restyling, circondato da avveniristici grattacieli lucidi e una splendida fermata della metropolitana davanti. Proprio come a Roma, insomma. Ma non vorremmo fare i soliti globetrotter, cominciando ad elogiare le città all'estero e disprezzando la nostra. No, aspettate. Noi siamo romani e i romani non parlano mai male di Roma, anche quando cade a pezzi e la cucina è raffazzonata e cara, perché, sapete, noi c’avemo er Colosseo. Ma si da il caso che non ne possiamo proprio più di questa veste malconcia della quale Roma si ammanta da molto, troppo tempo e per ora lasciateci sognare con un tot di butterscotch con i raspberrys nello stomaco che oh my God. Cosa si può dire di Londra, se non che sia splendida? Così tanto commovente nella sua esplosione di vitalità, superba nella sua contraddittoria, duplice essenza di trasgressione punk e impeccabile performance che rende ogni cosa adrenalinica, precisa, dal risultato ineccepibile, maledettamente wow.
Una cosa ci viene in mente, ed è che noi non ce la faremo mai ad eguagliarla. Chi è stanco di Londra è stanco della vita, professava Samuel Johnson, e noi non potremmo giammai dire il contrario. Proprio mentre ci rendiamo conto della nostra evidente sconfitta come civiltà di fronte alla grande Londinium - abbandonata dai romani dopo averla fondata, per evidente incompatibilità a livello climatico e di mancanza di carbonara - ci siamo imbattuti in ciò che inconsciamente cerchiamo, in una nutrita selva di cibo proveniente da qualsiasi parte del mondo, come in una metropoli che si rispetti: Il Ristorante di Gordon Ramsey. Guardiamo l'insegna come fosse la nostra stella polare: quattro vetrine al terzo piano del centro commerciale di Battersea dedicate all'irascibile cuoco 57enne di origine scozzese, con un passato da calciatore nei Glasgow Rangers e 25 ristoranti sparsi per il mondo, svariati libri di cucina all'attivo e innumerevoli programmi televisivi di successo. La soglia del ristorante la varchiamo con l’euforia di non trovarci, per una volta, da Giggi er Troione o similari trattorie di qualche coatto in parannanza che si accinga a indicarci il Qc Code con prescia e sufficienza, sbattendoci sul tavolo una caraffa di acqua del Sindaco microfiltrata senza tappo a vite, con la scusa universalmente sdoganata che bere acqua imbottigliata sia improvvisamente un peccato mortale da insensibili che odiano il pianeta.
C’è un pavimento a scacchi che è una meraviglia, con una dining room di una classe che ci strappa la famosa lacrima di gratitudine al Padreterno, quella che non scende mai a meno che non sia per biastimare il traffico o per la stupidità della gente, il corrimano in ottone circonda i tavoli gremiti da una clientela elegante e multietnica, illuminati da diecimila stelle, da una cucina a vista provengono piatti degni della cover di Food & Wine fatti al momento e un angolo bar prepara cocktails da smutandarsi senza ritegno dalla felicità. E noi ci siamo, Signori, e ci prenderemo la briga di giudicare i piatti del guru di Hell’s Kitchen. Fatti sotto, Gordon, vediamo se torneremo in Italia sventolando il bandierone daa Maggica urlando ‘matriciana’ tra Testaccio e Lungotevere. Ora, se a Londra c'è una cosa che non si rimpiange, tanto per sfatare i luoghi comuni romani, è il cibo, in tutte le sue più disparate variazioni e provenienze. Noi, nonostante siano giorni che depauperiamo le scorte di cibarie di tutti i mercati londinesi – a Borrough Market abbiamo fatto fuori imprecisate quantità di fragoloni intinti nel cioccolato fuso e di pad thai - non possiamo tirarci indietro di fronte a un classico, enorme fish and chips con il suo bravo mashed peas e la salsa tartara e alle ali di pollo al tamarindo e coriandolo fresco. Il becco ce lo bagnamo con un ottimo Finn Indian Colada e un aromatico Smoke in the Water, ghiacciati a dovere. Il tutto armonicamente impiattato in impeccabili stoviglie immacolate, secondo le regole di armocromia del Dio degli impiattamenti, che evidentemente vede e provvede solo a London, con i suoi cuochi e chi ama questa città anti depressione, almeno per chi la visita. In un trip psichedelico dovuto all’evidente accadimento di trovarci esattamente nel disco dei Pink Floyd, addentiamo il trancio di cod – baccalà - dalla leggera, croccante frittura a guscio che rivela le carni bianche del pesce tradizionale del Regno Unito, con le sue patate ‘vere’ tagliate a mano, con la buccia. La salsa è impalpabile, si sposa con il fish ad esaltarne il sapore e il palato intona un God Save the Queen – noi restiamo nostalgicamente fedeli alla linea.
Le ali di pollo si presentano allineate come i soldati della Guardia Reale, sbrilluccicano di caramelloso tamarindo rendendole deliziose come caramelle, con una punta di piccante esaltato dal coriandolo fresco. Dal vetro i passanti ci guardano e ridendo, le nostre facce sono eloquenti, ci chiedono se è buono, noi da bravi italiani mimiamo un’‘avoja!’. A dire il vero esclamiamo vieppiù due o tre mortacci, che in tal caso esprimono l’assenso e la meraviglia per la bontà dei piatti. In quel momento appare una waitress – in inglese fa più fico- rapita dal nostro idioma natìo, che non vede l’ora di parlare, essendo autoctona al pari nostro dello Stivale. "In Italia non torno più, sono arrivata seguendo mia sorella e da quindici anni vivo a Londra. Le amicizie? Io esco con i colleghi solo il giorno off, faccio casa e lavoro, ma a me non importa delle feste". Mentre facciamo pure la scarpetta e ci riempiamo gli occhi di efficienza, bontà e perfezione, la girl viene richiamata all’ordine. Qui si lavora sodo, non come a Roma che se chiacchiera.
I dolci che vediamo passare su eleganti cabarèt in peltro sono da immortalare, ma dobbiamo darci una regolata, se non vogliamo sbrattare in stile Sid Vicious in un vicolo di Brick Lane. Mentre diamo 5 alla location, al cibo, al prezzo e al servizio, un pensiero va a Gordon, il biondo artefice di tutto questo, che risiede nel quartiere con le sue diciassette stelle Michelin. Un altro al prediletto Maestro Guido Mori, che non ha apprezzato la cucina del famoso scozzese. Noi auspichiamo di poter essere ospiti al desco dei due Maestri, per una collaborazione Uk-Italy, chissà. Per ora lasciamo la patinata Londra per tornare nella nostra sgangherata Roma, foriera di tante cene casalinghe a base di riso bianco e tonno in scatola… Best regards & see you soon. Bella regà!