L’attivismo vien mangiando. E certe idee, in effetti, fanno lo stesso percorso del cibo: dalla bocca allo stomaco, poi l’intestino e infine… E quando vengono fatte passare per grandi idee filosofiche, di solito, sono anche truffe intellettuali. Perché vale il teorema: non esistono idee filosofiche cattive. Se sono cattive non sono idee filosofiche. Sono pseudofilosofia, spesso derivata da studi extrafilosofici, come studi letterari e culturali o artistici. Non a un caso il 9 maggio 1992 una serie di filosofi contemporanei, da Quine ad Armstrong, tra loro anche l’italiano Massimo Mugnani, inviò una lettera aperta, poi pubblicata sul Times, in cui si criticava la possibilità che l’Università di Cambridge desse una laura honoris causa in filosofia a Jaques Derrida. La motivazione era la seguente: “Derrida si descrive come un filosofo, e i suoi scritti portano effettivamente alcuni dei segni degli scritti di quella disciplina. La loro influenza, tuttavia, è stata in misura impressionante quasi interamente in campi al di fuori della filosofia - nei dipartimenti di studi cinematografici, per esempio, o di letteratura francese e inglese. Agli occhi dei filosofi, e certamente tra coloro che lavorano nei principali dipartimenti di filosofia di tutto il mondo, l’opera di M. Derrida non soddisfa gli standard accettati di chiarezza e rigore”. Le stesse critiche potrebbero essere mosse alla madre delle teorie queer, Judith Butler, le cui idee hanno attecchito in modo proficuo nel mondo dell’arte (nella filosofia hanno creato autonomi allarmati dal ridicolo fascismo del linguaggio). Resta epocale il giudizio della filosofa femminista Martha Nussbaum: “È difficile venire a capo delle idee di Butler, perché è difficile capire quali siano”. È anche difficile capire cosa possa esserci di interessante in un autore sostanzialmente smentito sotto ogni punto di vista come Karl Marx. Certo, resta una lettura imprescindibile, lo specchio nel quale la nuova filosofia politica dovrebbe aspirare a non riflettersi mai (se vuole evitare genocidi e derive autoritarie).
Non sono tre autori a caso. Tutti e tre, in un modo o nell’altro, hanno plasmato molto attivismo politico contemporaneo e molte firme del femminismo. Tra queste anche Nora Bouazzoni, traduttrice e giornalista francese. Il suo ultimo libro uscito oltralpe è Mangez les riches: La lutte des classes passe par l’assiette. Appunto, il marxismo culinario di chi non mangia quasi niente (è, in effetti, una buona metafora del marxismo come pratica politica: l’ideologia di chi non pensa quasi a niente). Bouazzoni è, a torto o a ragione, vegetariana. Il suo piatto preferito: la pizza margherita e napoletana (cosa questo voglia dire, ormai, resta un mistero). L’anno scorso è uscito per la casa editrice Le Plurali un libercolo di poche pagine, un pamphlet in salsa di soia: Faminismo: il sessismo è in tavola. In questo libro ci sono alcuni elementi veri. Per esempio: le donne sono state escluse da un processo di professionalizzazione, quello della cucina stellata per intenderci, che tende a premiare primariamente uomini (quando premia le donne di solito lo fa dicendo “miglior chef donna” e non “miglior chef” e basta). Sembra essere lo stesso processo di esclusione che caratterizzò un’altra branca, quella dei nerd informatici (all’inizio le smanettone erano donne, non uomini). Un altro aspetto vero è questo: non c’è nessuna obiezione di principio contro la dieta vegetariana. Dire che non dovremmo smettere di mangiare carne perché lo facciamo da sempre è un’argomentazione da tonti. Un buon motivo per non smettere di mangiare carne, piuttosto, potrebbe essere che mangiarla ci piace (è anche un ottimo argomento, perché inattaccabile: a meno che non riescano a convincerti che non la carne non ti piace davvero). Poi c’è molto di sbagliato e, come spesso accade, poco di originale. Per esempio, tenere insieme femminismo e diete vegetali non è cosa nuova. La tesi secondo cui la donna sarebbe come il maiale è stata lanciata anni fa. La donna sarebbe il referente assente della violenza culturale, sostiene Carol J. Adams nel suo articolo Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne. Non è ben chiaro cosa tutto questo voglia dire, se non che in fondo tutte le grandi lotte sono legate. Anche la lotta ambientalista è una lotta femministe. Le donne sarebbero più sensibili a queste tematiche perché, paradossalmente, il loro essere state sempre sottomesse e costrette a occuparsi della casa e dell’aspetto naturale della famiglia (cura e alimentazione), ha fatto sì che diventassero anche più lucide sulle cause legate all’ambiente.
Tutto molto bello, quindi la carne è patriarcale? In sostanza sì. È indice di sottomissione, è la riproduzione della biblica gerarchia: prima l’uomo, poi le altre specie (e la donna nata dalla costola). Tutto questo ha un nome e torna la ciarlataneria tronfia di Derrida: carnofallogocentrismo. Nelle parole di Bouazzouni: “Chi detiene l’autorità (sulla natura, sulle donne, sulla prole) è la persona che possiede queste tre caratteristiche: logos, phallus e si impone ingerendo carne, cioè chi consuma l’altro, attraverso l’omicidio e/o lo sfruttamento istituzionalizzato”. A rigor di logica una trans onnivora e laureata potrebbe essere un problema per l’ordine delle cose tanto quanto il villoso cavernicolo che si fa portare la birra sul divano da sua moglie. Il delirio è tale che qualcuno sarebbe persino disposto a dar ragione a Bouazzouni e Derrida. La carne è patriarcale ed esprime senso del potere. E in quanto tale dovrebbe incutere paura, come nel monito di Caligola (forse), mi odino purché mi temano. Insomma, fine della storia. Se il potere è dato dalla carne, il vegetarianesimo femminista è un attivismo destinato a perdere. Per definizione: è impotente. E, generalizzando, potremmo dire che tutto il nuovo femminismo è impotente, in teoria. Nella pratica no, essendo una nuova forma di inquisizione. Ma negli argomenti sì, è il femminismo del linguaggio gentile che a forza di smussare il linguaggio dimentica la realtà (era una delle accuse di Nussbaum, pensare alle parole e non alla legge). È anche un femminismo maleducato, a suo modo violento. Vorrebbe costringere tutti a pensarla allo stesso modo, fino al punto da costringerci a mangiare le stesse cose. È un regresso all’infanzia, la disobbedienza capricciosa di chi contravveniva a un insegnamento elementare e liberale: non si guarda nel piatto degli altri.