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Imane Khelif, Angela Carini e la candidata al premio Strega: tutte le stronz*te (in senso tecnico) di Maria Grazia Calandrone sul caso boxe alle Olimpiadi: fake news, esempi sbagliati, poesie alla Franco Arminio e...

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

16 agosto 2024

Imane Khelif, Angela Carini e la candidata al premio Strega: tutte le stronz*te (in senso tecnico) di Maria Grazia Calandrone sul caso boxe alle Olimpiadi: fake news, esempi sbagliati, poesie alla Franco Arminio e...
Maria Grazia Calandrone, scrittrice candidata al Premio Strega, ha scritto un testo sul caso Imane Khelif, ma pieno, tecnicamente, di “stronz*te”. Lo abbiamo analizzato un pezzo alla volta, tra fake news, confusione e retorica. Ma perché scrivere per forza e andare, inevitabilmente, fuori tema? Non vale la massima “se non sai, è meglio tacere”? E gli scrittori non dovrebbero fare attenzione a come usano le parole?

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

Un tempo si sarebbe detto “andare fuori tema”. E poi “se non sai, è meglio tacere”. Oggi si dice “opinione di un candidato al Premio Strega”. Dopo Chiara Valerio, che ha provato a confondere le acque con polveri e parole magiche di dubbia sostanza, arriva Maria Grazia Calandrone, scrittrice einaudiana e poetessa mondadoriana, che ha dimostrato esattamente in che modo non si dovrebbe scrivere un articolo su un tema come il caso Imane Khelif. Siamo abituati a riconoscere il primato delle fake news alla destra, spesso vista come ignorante. Talvolta è vero. Ma è altrettanto vero, come in questo caso, che anche la sinistra sa fare disinformazione. È una sinistra di moda, che mescola sentimentalismo, nozioni elementari di postmodernismo e una dose variabile di talento letterario. La disinformazione, poi, si accompagna spesso con la sragione, con l’incoerenza e, infine, con una confusione generale sulle basi del ragionamento. E visto che, come sosteneva il filosofo Harry G. Frankfurt, le stronz*te sono davvero pericolose per una società civile, è importante impegnarsi in una battaglia per smascherarle (oggi, al contrario, si preferirebbe censurarle). Un ulteriore appunto da Frankfurt, proprio dal suo saggio On Bullshit del 1986: “Quello che di sé ci nasconde chi racconta stronzate, è che i valori di verità delle sue asserzioni non sono al centro del suo interesse; ciò che non dobbiamo sapere è che la sua intenzione è né di riferire la verità né di nasconderla. Questo non significa che il suo discorso sia mosso da un impulso anarchico, ma che la ragione che lo guida e lo controlla non si cura di come stanno davvero le cose di cui parla”. L’articolo di Maria Grazia Calandrone è un esempio pertinente di questa condizione intellettuale completamente insensibile alla realtà. Andiamo con ordine.

Imane Khelif
Imane Khelif
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Poesia per nascondere le stronz*te

La premessa è giusta: il match tra Khelif e Carini costringe “l’opinione mondiale a riflettere sull’apparenza dei corpi. O meglio, riflettere e, soprattutto, cercare di informarsi sarebbe stato utile e produttivo, avrebbe applicato le menti di tutto il pianeta a uno dei temi aperti del futuro”. Ma l’articolo dimostra una bassissima qualità dell’informazione acquisita da Calandrone. Si inizia a parlare nella lingua del conte Mascetti, tra “linee ideologiche o preideologiche, pensieri gutturali o teorie che poco hanno a che vedere con il sereno assorbimento dei fatti”. Come vedremo fra poco, però, l’articolo lascia completamente fuori i fatti, a favore di linee ideologiche e preideologiche. In articoli così si sostituisce sistematicamente la scienza con la citazione letteraria. Così, prendendo in prestito i versi del Franco Arminio marocchino di turno, Youssef El Hirnou, Calandrone dà questa immagine di Khelif: “Non piangere Imane, non piangere / nessuno si è mai chiesto quanto fossi donna quando raccoglievi rottami per rivenderli in cambio di spicci. / Se lo chiedono ora quando mandi al tappeto le loro figlie”. Qui si sfrutta l’elemento pietistico, l’infanzia infelice di Imane, per delegittimare una preoccupazione legittima, dal momento che non c’è nulla di male a preoccuparsi della femminilità di Khelif nel momento in cui potrebbe trattarsi di un maschio biologico, questa l’ipotesi (che resta tale in mancanza di prove), sul ring con delle donne.

Le stronz*te sui livelli di testosterone (che non sono mai stati il problema)

Ma i versi sono solo l’overture della lunga prima prova scritta su postmodernismo e cattive maniere argomentative. Si inizia sostenendo che “la scelta di includere in una delle due sommarie categorie sportive alcuni corpi non conformi fosse già politica”. O lo è diventato con l’esposizione pubblica di Khelif in queste ultime settimane. A meno di non voler intendere con politica qualsiasi cosa sia anche solo lontanamente pertinente con la vita pubblica, probabilmente Calandrone avrebbe fatto meglio a parlare di categorie “storiche” basate su evidenze scientifiche che permettono di avere una base per una competizione equa tra individui. Anche se la scienza tende a ribaltare il senso comune, a volte quest’ultimo è sufficiente per capire come stanno le cose: non serve una laurea in biologia per capire i vantaggi strutturali, ai fini sportivi, di un uomo su una donna. Includere dei corpi non conformi in una delle due categorie, significa prendere il caso particolare, guardare la sua biologia, e dire a cosa somiglia di più. A questo punto e durante tutto l’articolo Calandrone mostra di non aver compreso la vicenda Khelif e torna a parlare dei “dosaggi ormonali [che] vengono strattonati senza contezza”. Si chiede come come: “Se valgono i dosaggi ormonali, perché non dovrebbe valere l’altezza?” Per cominciare, il caso Khelif non riguarda i livelli ormonali, che possono essere dosati e, secondo il Comitato olimpico (Cio) stesso, erano nella norma. In caso contrario Khelif non sarebbe stata idonea a gareggiare alle Olimpiadi. Anzi, i livelli ormonali erano esattamente l’unico parametro tenuto in considerazione. Nessuno, tranne la stampa generalista, si è preoccupato di questo. L’ipotesi su Khelif riguarda un disturbo dello sviluppo sessuale maschile (dsd) che le avrebbe permesso, pur senza sviluppare genitali maschili, di avere una crescita fisica durante l’adolescenza tipicamente maschile (deficit della 5-alpha reduttasi). Se così fosse, abbassare il testosterone prima delle Olimpiadi non avrebbe potuto cancellare i vantaggi oggettivi rispetto alle atlete donne. Secondo: altezza e ormoni non sono due tipi di vantaggi comparabili, basti pensare al fatto che l’altezza non è un vantaggio in sé in tutti gli sport (per esempio nella ginnastica artistica).

Il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio) Thomas Bach
Il presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio) Thomas Bach

Le stronz*te di Thomas Bach (Cio) in difesa di Khelif

Calandrone difende anche l’operato di Thomas Bach, il presidente del Cio: “Nel difendere la partecipazione di Khelif, Bach difende il suo operato. E l’operato, appunto, del futuro, dove regole e leggi – come sempre – arrivano dopo la realtà”. In realtà è Thomas Bach e, per estensione, il Cio a essere arrivato dopo la realtà. Bach ha difeso semplicemente una posizione insostenibile che è stato costretto a ritrattare pubblicamente a distanza di poche ore. Inizialmente aveva detto: “Questo non è un caso di dsd, si tratta solo di una donna che partecipa a una competizione femminile”. Poco dopo il Cio ha pubblicato un tweet di smentita: “Correzione, ciò che si intendeva era: questo non è un caso di donna transgender, ma di una donna che partecipa a una competizione femminile”, lasciando aperta la possibilità che Khelif non abbia ricevuto una diagnosi di dsd, probabilmente di dsd maschile (cioè di un disturbo che riguarda chi nasce maschio), alla nascita. Durante la competizione Bach continuerà a sostenere la stessa posizione arrivando a dire che non esiste un metodo scientifico per distinguere uomo e donna. Nonostante questo sembri plausibile, evidentemente, a Maria Grazia Calandrone, ovviamente si tratta di una stronz*ta: esistono molti modi di distinguere un uomo da una donna. E questa distinzione non è semplicemente, come dice la scrittrice, una “lasca griglia interpretativa”, un “contenitore, un modo di organizzare il caos naturale secondo una linea di massima, non esaustiva”: è, piuttosto, una distinzione efficace, utile in ambito pratico (le malattie spesso hanno una incidenza diversa tra maschio e femmina) e in ambito teorico. “La società è fluida”, scrive Calandrone, ma non la scienza.

Le stronz*te sulla normalità

C’è anche un altro problema. Calandrone crede che “normalità” voglia dire sostanzialmente quello che intende Vannacci: “Si intende – come sempre – semplicemente maggioranza, maggiore diffusione”. Per iniziare: lo sport e le categorie sportive non riguardano la normalità, soprattutto se intesa in questo senso. Nella categoria femminile gareggiano moltissime donne con sindrome dell’ovaio policistico (Pcos) che dovrebbero essere considerate, se normalità vuol dire semplice maggioranza, anormali. Ma nessuno vuole cacciare dalla categoria femminile queste atlete. Anzi, nello sport le donne con sindrome dell’ovaio policistico sono rappresentate centoquaranta volte di più che nella società (sono 7 ogni 1000, contro 1 ogni 20 mila nascite). Non è, quindi, un problema di maggioranza, ma di equità. La differenza tra una donna con Pcos e un maschio con un disordine dello sviluppo sessuale tipo quello che si ipotizza abbia Khelif (deficit della 5-alpha reduttasi) è pragmatico: i livelli di testosterone di una donna con Pcos possono essere tre o quattro volti quelli di una donna senza Pcos, mentre quelli di un maschio con questo specifico dsd possono essere anche dieci volte superiori, come i livelli di un uomo. Se nasci con tre volte i livelli di testosterone di una donna senza Pcos avrai tratti ipernadrogeni, peluria, un po’ più di forza e così via, ma se nasci con i livelli di testosterone di uomo (perché sei un uomo), allora avrai il fisico di un uomo, con o senza i genitali maschili. Questa considerazione non ha nulla a che fare con il concetto di normalità.

Caster Semenya
Caster Semenya

La stronz*ta del caso Maria José Martínez-Patiño

Maria Grazia Calandrone sceglie di fare un esempio in difesa di Khelif. Quello dell’atleta Maria José Martínez-Patiño, nata con un disturbo dello sviluppo sessuale maschile (quindi si nasce con cromosomi xy) definito “insensibilità agli androgeni”. “Non possiamo più stare in difesa, stretti e rigidi all’angolo, essere categorici ci porta a non capire più niente. Escludere le variabili significa negare l’evidenza. Peraltro, ci sono precedenti del caso in questione. Una per tutte, Maria José Martínez-Patiño, specialista di corsa ad ostacoli, squalificata dai Mondiali universitari di Kobe nel 1985 per le stesse ragioni che oggi riguardano Khelif”. Ma Calandrone sbaglia. Non solo perché poco dopo dirà che il caso di Martínez-Patiño è rimasto sostanzialmente un fatto privato, senza l’eco dei social, (Maria José Martínez-Patiño è diventata un simbolo della lotta contro i test sul sesso, ha pubblicato sul Lancet e su altre riviste scientifiche), ma soprattutto perché il caso Khelif è esattamente il contrario di questo. Khelif, come abbiamo detto, potrebbe essere un caso simile a quello di Caster Semenya, la mezzofondista con un deficit della 5-alpha reduttasi. Mentre Maria José Martínez-Patiño ha cromosomi maschili ma non è sensibile agli androgeni, e dunque cresce esattamente come una donna, Semenya ha cromosomi maschili ed è perfettamente sensibile agli androgeni, dunque ha sviluppato un fisico tipicamente maschile, pur senza i genitali (per lo sviluppo dei genitali infatti è necessario che il testosterone si trasformi in un androgeno più forte, il dhd). Il caso Khelif viene associato al caso Semenya, non a quello di Maria José Martínez-Patiño.

La società del futuro e il vittimismo di Calandrone-Khelif come stronz*ta

La premessa di tutti questi discorsi è il vittimismo. Si crede che ci siano persone perseguitate, anche una pugile che vince l’oro alle Olimpiadi può diventare la vittima di un sistema, nonostante questo sistema, evidentemente, non le abbia impedito di arrivare in cima alle sue aspirazioni professionali (a ostacolarla, semmai, è stata quell’infanzia tra i rottami in un Paese moralmente arretrato). In realtà il vittimismo è una scusa per riproporre progetti palingenetici per il futuro, società ideali, utopie (che di solito si trasformano sempre in distopie). Così Calandrone scrive: “Evidentissimo che siamo molto lontani dall’ideale società planetaria che alcuni si sforzano di costruire. Proprio per questo, però, vittime dell’ignoranza altrui come Khelif servono a esporre le menti al sale fecondo del dubbio”. Tuttavia, al netto della propaganda di una parte della destra, chi ha parlato di Khelif ha esattamente posto un dubbio che, con enormi sforzi, parte dell’establishment culturale ha provato a liquidare, Calandrone compresa. Questo esercizio del dubbio, che è il centro di tutta la filosofia occidentale, è stato avversato sistematicamente, sia culturalmente (vedi Calandrone, Valerio, Cazzullo) sia legalmente. È infatti altrettanto falso che Khelif sia “ben allenata” a confrontarsi con chi la criticherà. “Per fortuna sa combattere. Per fortuna sa tacere. È il padre a parlare per lei”. Ma che modo di combattere è far partire delle denunce?

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