Luca Cesari è anche stato minacciato per aver riprodotto, in video, la ricetta originale della carbonara (uovo cotto, ripassato in padella, groviera, pancetta, niente carbocrema). Questo per dare l’idea di quale sia il tenore del dibattito social sul food. Scoccia dover ascoltare un esperto, ognuno si sente di poter difendere, a modo suo, la cucina italiana. Ma per la cucina italiana vale quel che Giorgio Montanini dice di chi si lamenta delle difese: Dio ha creato tsunami, terremoti, fulmini, tempeste e servi tu per difenderlo? La cucina italiana, gli italiani spesso neanche la capiscono, ma la cucina italiana ha la sua storia complessa e non ha bisogno degli apologeti online, i cuochi da tastiera. Noi, invece, un esperto lo abbiamo ascoltato. Siamo stati a mangiare con Luca Cesari, storico della cucina, firma del Sole 24 Ore, alla Trattoria La Corte Galluzzi, per cui ha curato il nuovo menù, una carta che vede non solo alcuni piatti della tradizione bolognese tra i più popolari (tortellini in brodo, lasagne verdi) ma anche piatti quasi scomparsi, come i cannelloni, e ricette auree, quelle di Pellegrino Artusi, il maior di ogni ubi maior, minor cessat nelle discussioni gastronomiche in Italia. Cesari ha scritto due libri, Storia della pasta in 10 piatti (Il Saggiatore, 2021; premio Bancarella e libro dell’anno per Gambero Rosso) e Storia della pizza (Il Saggiatore, 2023). Ora sta lavorando a un terzo libro top secret e a molti altri progetti. La scelta di riscoprire delle ricette di Artusi non ha a che fare con una nostalgia, come dice Nietzsche, da antiquario. Allievo di Umberto Eco e Paolo Fabbri a Bologna, Cesari conosce il segreto della storia, la sua elasticità. Non disdegna il nuovo, non critica aprioristicamente l’originalità, spera in un’Italia che sappia riprendersi economicamente in modo da poter tornare a sperimentare. I camerieri vengono a turno a salutarlo, arriva il proprietario, il cuoco, vogliono un parere su qualsiasi piatto sia nella linea del pranzo. Iniziamo guardando il menù, è arrivato in bicicletta, abbiamo entrambi caldo ma scegliamo di star fuori lo stesso, nel quadrato a un minuto dalla basilica di San Petronio, sotto la Torre dei Galluzzi. Ci sono diversi ragù, quello classico, quello di Artusi, quello con i piselli (ragù con l’arvajja), tutti rigorosamente bolognesi.
Ho sentito che i primi ragù venivano fatti non su una base di olio, ma di strutto, di grasso animale.
Sì, assolutamente. La base di grasso usato nella cucina napoletana fondamentalmente era lo strutto. Lo dice ancora Ada Boni ne Il talismano della felicità del 1929: le brave massaie devono imparare a fare lo strutto soprattutto se abitano in quelle regioni che si basano su questo grasso, come nella cucina romana e la cucina napoletana.
Che rapporto c’è tra tradizione e chi cucina sui social? La pasta è esportata nel mondo, ognuno la fa con la sua ricetta sua, c’è chi mette solo i tuorli, per esempio, oppure chi aggiunge l’olio.
Allora, tradizionalmente la pasta si faceva con acqua e farina, basta. Poi c'è stata una lentissima transizione dalla pasta fatta con farina di grano tenero, acqua e pochissime uova, fino alla pasta fatta con farina di grano tenero e uova. Ma ancora nel Novecento, quando c’era per esempio una grande tradizione di pasta fresca tirata a mattarello nel Lazio, ancora si usava l’acqua per renderla più morbida. Non tiene il morso, come si dice. Ma d’altronde non era un’esigenza così sentita. L'idea della pasta al dente, la pasta callosa, non piaceva, anzi la pasta veniva cotta moltissimo.
Nel tuo libro, Storia della pasta in dieci passi, hai scritto che la prima ricetta di una carbonara è americana.
Assolutamente sì. Almeno finché non ne scopriamo un’altra. La prima notazione della pasta alla carbonara nel libro è riferita al 1952 e si trova in una guida ai ristoranti di Chicago di Patricia Bronté. Poi mi è stato fatto notare che in un film con Totò del 1949 ambientato a Roma, Yvonne la Nuit, si menzionava già la carbonara, quindi l’abbiamo retrodata di un anno, che comunque non sposta molto.
Ci portano l’antipasto, una mortadella grigliata e degli stick di polenta con squacquerone. La particolarità è nei calzagatti, polenta fatta con la minestra di fagioli. Ma sui social è la mortadella che è diventata popolare. Chi la associa ai salumi classici, chi dice sia nata con all’interno carne di altri animali.
È vero che la mortadella veniva fatta con l’asino?
È sempre stata di maiale. Poi, nell’Ottocento, si usava la carne di asino per tagliare la carne di maiale ma è una sofisticazione alimentare, è una frode, perché la carne di asino non costava nulla mentre il maiale è sempre costato moltissimo, per tutto l’Ottocento i salumi potevano arrivare a costare tre volte la carne di manzo. Per questo si usavano anche carni più economiche. Fu in quel periodo che venne introdotta la carne di cavallo, anche lì con molto scetticismo – a Napoli durante il Regno delle due Sicilie, per esempio, non si poteva introdurre carne di cavallo cruda.
Ricorda lo scetticismo verso le nuove farine, come quella di grilli, e le carni sintetiche.
Stessa cosa. Abbiamo una fobia verso i nuovi alimenti nonostante siano stati approvati dall’Fda, dai vari istituti, dall’Unione Europea, per cui sono alimenti, non è che stiamo mangiando un’altra cosa. Poi noi non abbiamo bisogno di introdurre nuove proteine, vero, ma è un altro discorso.
A proposito di cavallo, oggi considerato un animale che non dovremmo mangiare. Alcune carni stanno diventando tabù, cibi estremi?
Ovviamente abbiamo moltissime proteine. L’ultima enorme crisi alimentare c’è stata durante la Seconda guerra mondiale. Ora non ne abbiamo neanche più memoria. Rinunciare al cavallo a cui è sempre stata assegnata una grande intelligenza? Benissimo. Si va avanti. Aprire un allevamento di conigli adesso è come comprare un negozio di dischi dopo Spotify. Non hai capito cosa sta succedendo.
Altro tema morale. Pensiamo al sanguinaccio, piatto della tradizione quasi scomparso. Alcune pratiche sono considerate immorali perché l’animale soffre. Ma se poi comunque lo uccidi, che differenza fa?
Moltissima. Il benessere animale, il tipo di allevamento, com’è stato trattato l’animale in vita, com’è stato ucciso, dal punto di vista etico secondo me è al vertice delle preoccupazioni del pensiero occidentale. Poi non bisogna neanche pensare che per combattere gli allevamenti intensivi o pratiche disumane si debba tornare ad allevare galline in casa. Ma di che parliamo? Ma viviamo nei condomini.
Cosa si dovrebbe fare per sensibilizzare?
Lavorare sull’etichettatura. Non basta dire che è carne italiana. Mi devi dire dove ha pascolato.
Il sovranismo alimentare di Lollobrigida, quindi, non basta.
Il sovranismo alimentare non ha proprio senso, perché posso avere un bovino francese, allevato nel migliore dei modi, o svizzero, che me ne frega se non è italiano. Se è una carne di qualità, che ha rispettato del benessere animale per quanto riguarda l’allevamento, che problemi ci sono?
Però così si va contro i produttori e i fornitori italiani, dicono.
Vogliamo tenere i soldi in Italia? Benissimo, ma allora sul piatto non metti solo il territorio, ma tutto. E torna in gioco la questione dell’etichettatura, che spesso viene elusa per colpa delle lobby dei produttori di carne, che sono enormi. Ma pensa se facessimo con qualsiasi altro alimento quello che facciamo con la carne. Immagina non avere quella serietà nel distinguere tra diversi tipi di formaggio e il parmigiano. Dovremmo fare la stessa cosa con la carne. E poi il consumatore sceglierà con tutte le informazioni utili a disposizione, non solo con quelle che vogliono dirti.
L’imprenditoria, anche la ristorazione, come se la passano in Italia?
Malissimo. Basta vedere quanto poco si sperimenta. Sperimentare vuol dire superare i limiti e rischiare di perdere. Ora in Italia non lo facciamo più.
Anche il fine dining, la ristorazione stellata, è in crisi.
Il fine dining c’è sempre stato, almeno dai tempi delle corti rinascimentali. Una certa fetta di popolazione vuole mangiare determinate cose e solo quella parte di popolazione può permetterselo. Nel Settecento Casanova si faceva mandare le ostriche a Parigi da Venezia, prendevano dei barili, li riempivano di ostriche con l’acqua di mare, li tappavano, li caricavano su un mulo e poi andavano a Parigi. A partire dagli anni Ottanta abbiamo iniziato a credere che il fine dining potesse essere una cosa per tutti. In realtà il fine dining, quello vero, se lo possono permettere solo alcuni. Questa contraddizione fa scoppiare la bolla.
È un mondo che sta finendo?
Niente finisce. La verità è che alcuni chef continuano a lavorare bene, altri no. E chi non lavora bene grida alla fine del fine dining.
I primi sono abbondanti, portati in piatti bianchi e azzurri. Luca versa il vino a entrambi e lo farà per tutto il pranzo, ci scambiamo i piatti per assaggiarli. Io ho preso, accettando il suo consiglio, le tagliatelle verdi (nell’impasto ci sono gli spinaci) con il ragù alla bolognese di Pellegrino Artusi. La mantecatura della pasta, mi spiega, viene fatta prima con il formaggio, poi si aggiunge il ragù. Un tempo il vero condimento, infatti, non era la carne ma il parmigiano. “Abbiamo resuscitato il ragù di Pellegrino Artusi, bianco, tirato in brodo di carne. Del maiale praticamente c’è solo la pancetta fatta soffriggere con la cipolla, poi il manzo fatto rosolare bene, poi il brodo per coprire. Si cuoce finché non si restringe. Qui si concentrano i profumi della carne”. Lui le tagliatelle al ragù alla bolognese con l’arvajja, cioè i piselli.
Annusandola, la prima cosa che ho sentito è stata la carne infatti, l’odore di carne.
Mi piaceva tantissimo quest’idea, è un lascito della cucina francese. Dalla metà del Seicento in avanti cominciano a lavorare su queste cose qui. Prima usavamo avevamo le spezie nella la pasta. La cucina bolognese, ma tendenzialmente tutta la cucina italiana, deriva dalla cucina francese. Oggi non mangeremmo mai un piatto del nostro Cinquecento, pasta con noce moscata, zenzero, fiori di garofano, cannella e zucchero per esempio.
Questo smonta anche il mito di una cucina italiana tradizionale? C’è chi dice non sia mai esistita.
Lo sostiene anche lo storico Alberto Grandi.
E la cucina regionale invece? Anche quella non esiste? Alla fine ogni nonna cucina a modo suo.
Questo no, non scherziamo. La tradizione non significa omologazione. La tradizione cambia anche nel tempo. Guarda i nostri ragù. Uno risale al 1891 [l’Artusi], questo è attuale [quello con i piselli]. Si chiamano tutti e due ragù alla bolognese, benissimo. Sono diversi? Sì. Hanno la stessa matrice? Ovviamente sì. È lì la tradizione. La cucina tradizionale si sta evolvendo. Continuamente. Ci sono alcuni piatti che scompaiono, alcuni piatti che nascono. I cannelloni noi li abbiamo rimessi nel menù, gli unici probabilmente a Bologna. Ma io sono cresciuto a cannelloni, parliamo di qualche decennio fa, non due secoli. Ecco la velocità con cui la tradizione muta.
C’è un piatto recente che sta entrando nella tradizione?
Stiamo assistendo a una cosa molto divertente che riguarda Bari e gli spaghetti all’assassina. Nel 2013 si è formata l’Accademia dell’assassina, nel 2018 viene fuori un romanzo che è di Gabriella Genisi, il romanzo diventa una serie tv, gli spaghetti diventano popolari a Bari, finché Celso Laforgia fonda l’Assassineria Urbana e ci va Stanley Tucci per le riprese di un documentario. Nell’ottobre dell’anno scorso il New York Times in una settimana ha fatto due articoli sulla pasta all’assassina. E adesso, se vai un giorno a Bari, non chiedi le orecchiette alle cime di rapa, chiedi gli spaghetti all’assassina.
Che impatto ha la cucina healthy, sempre in trend, sulla tradizione? Ora sembra non si possa più usare neanche un po’ di burro.
È giusto, anche perché abbiamo un’idea sbagliata della tradizione. I nostri nonni mangiavano i tortellini una volta ogni tanto, non sempre. Il resto del tempo mangiavano zuppe e altri piatti che noi invece tendiamo a non replicare, né tantomeno a pubblicizzare (a che serve spiegare come si fa una polenta?).
Credi che sui social, almeno nel settore food, si faccia più disinformazione che informazione?
Guido Mori ti direbbe 99% disinformazione. Sicuramente c’è più disinformazione ma non bisogna neanche fissarsi. La cucina è un mondo vario e non riguarda solo i professionisti. Certo, alcune cose sono sbagliate, delle tecniche che vengono mostrate non portano a nulla. Ma raramente finiscono per fare del male alla salute.
Passiamo ai secondi. Lui fegato con la rete e l’alloro, io cotoletta alla bolognese, la regina delle osterie. E ovviamente patate al forno per entrambi.
La cotoletta ha due cotture giusto, una fritta e poi in padella. È molto spessa.
Esatto, è noce di vitello, come indicava l’Artusi. Oggi si fa di maiale spesso, per questo è fina. Ma il vitello resta tenero anche in queste dimensioni.
Anche questa è la cotoletta dell’Artusi quindi?
Non proprio, perché l’Artusi al posto del prosciutto ci mette il tartufo bianco.
Fenomeno Masterchef: tu credi che la nouvelle cuisine stia diventando una moda? Si fanno solo ricette raffinatissime.
Fino a pochi anni, fino all’epoca di Gualtiero Marchesi, i cuochi erano considerati artigiani. Erano in pochissimi a potersi permettere di farsi chiamare artisti o chef. In Italia abbiamo sicuramente delle materie prime estremamente di qualità, ma è diventata un’arma a doppio taglio. Perché da lì si è formata quella bolla del fine dining di cui abbiamo parlato prima. Oggi se sei un cuoco e non ti esprimi personalmente come farebbe un artista contemporaneo, non sei nessuno. Se ti metti lì e fai delle tagliatelle al ragù non sei nessuno. Sbagliato, sbagliatissimo.
Qual è il piatto più strano che hai mangiato?
Una volta mi hanno servito una cernia, il suo filetto cotto come al solito, e poi mi hanno presentato tutta la lisca pulita, intatta, perfetta. Cosa avevano fatto? Avevano preso la lisca del pesce, l’avevano disidratata completamente e poi l’avevano fritta. È stata un’esperienza divertente.
A Bologna se vuoi divertirti dove vai a mangiare?
Da È cucina Leopardi di Cesare Maretti per esempio. Lui è molto bravo, molto talentuoso. Molto simpatico. Fa i migliori spaghetti al pomodoro di Bologna.
Mi dici un piatto sopravvaluto?
La carbonara, assolutamente. Ci sono piatti della tradizione molto più buoni, la carbonara è stata vincente perché è veloce e semplice da eseguire, anche se non banale. Ha avuto successo per queste ragioni. Ma non per questo è il piatto migliore della tradizione italiana.
Un ingrediente sopravvalutato?
Possiamo dirlo, no? La burrata ha rotto il caz*o. La mettono ovunque, sulla pizza, sugli spaghetti.
Siate onesti intellettualmente. Fatemi una pasta con la panna piuttosto. Lo stesso vale per il pistacchio.
Oggi fa figo mangiare a chilometro zero e biologico. Che ne pensi?
Utile all’inizio per sensibilizzare, un bel claim. Però quello che conta, semmai, è la stagionalità. Inutile mangiare a chilometro zero ma fuori stagione.
Oggi se metti i pomodori nel frigo ti minacciano di morte…
Certo, è sbagliatissimo. Però se sei un cristiano normale che lavora otto ore al giorno e quando arrivi a casa hai a malapena il tempo di farti una doccia, parlare con le persone che vivono con te e cucinargli qualcosa, e non hai tempo tutti i giorni di fare la spesa, dove li metti i pomodori? In frigo. Sbagli? Sì. Hai altre possibilità? Non tante. È ridicolo tutto questo gastrofighettismo.
Per dolce altre tagliatelle. Non è un modo di dire. Se le sono inventate qui. Sono le tagliatelle del primo ma fritte. Sopra lo zeste di arancia, succo di arancio e lo zucchero a velo. Le prendi con le mani, piatto in mezzo. Siamo arrivati alla fine del pranzo di circa due ore.
Che rapporto c’è tra questo governo e la cucina italiana?
Basta una parola: marketing. Promuove quello che dice Coldiretti. Punto. È protezionismo alimentare senza senso. Come quelli che dicono la cucina italiana è la migliore del mondo. La migliore del mondo perché non sei mai uscito dal Trentino. Non sei mai andato oltre le Alpi.
Tu hai anche scritto un articolo “pericolosissimo” sul caffè italiano. Il nostro non è il miglior caffè al mondo?
È troppo bruciato. Abbiamo sempre avuto una preferenza per delle miscele molto forti, per cui normalmente il nostro caffè è più robusta che arabica, mentre la qualità migliore si esprime con l’arabica. Poi ci sono delle qualità di robusta particolari, buonissime, per carità, però lo standard è questo che ti dico. Ora bestemmio in chiesa, ma vai da Starbucks, ti fai un cold brew, è decisamente migliore. Se vuoi berti il solito caffè bene. Ma se dici che quello è il caffè migliore del mondo, non hai capito niente.
Perché va così di moda esportare i luoghi comuni, anche culinari, sull’Italia?
Perché ci siamo riusciti. Questo è stato un miracolo, non abbiamo capito come. Il grosso problema attuale, secondo me il vero problema, è che non abbiamo coscienza che questa posizione l’abbiamo raggiunta, conquistata, e non l’abbiamo sempre avuta. Forse nel Rinascimento. Stop. Dopo c’è stata la Francia. C’è stato un periodo, nei decenni centrali del Settecento, dove noi non abbiamo scritto nemmeno un ricettario degno di questo nome. Abbiamo esclusivamente tradotto i ricettari francesi. Quello è stato il punto più basso per noi, per la nostra cucina. Però siamo risaliti. Un secolo dopo c’è stato l’Artusi. Poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, abbiamo superato i francesi e siamo arrivati in testa alla classifica. Ma ora non sappiamo a che punto della storia siamo arrivati.
Cioè?
Se stiamo salendo, se ci stiamo mantenendo in quota o se abbiamo cominciato a scendere. Ci sono altri Paesi, mi viene in mente la Thailandia, che hanno avviato una politica governativa di rilancio della propria cucina. E ora si stanno diffondendo. Pensa solo a quanti Asian fusion ci sono in Italia. Le osterie invece sono scomparse.
La colpa, quindi, è della concorrenza e del nostro immobilismo?
La colpa primigenia è delle pizzerie. A Bologna fino agli anni Sessanta non ce n’erano. Poi è stata un’invasione. Uguale in tutta Europa. Gli Stati Uniti avevano cominciato prima, perché iniziano alla fine dell'Ottocento. Fino a quel momento la pizza è solo una cosa napoletana, al massimo romana. Poi si diffonde, è più divertente da mangiare, e le osterie tradizionali non hanno saputo reagire.
Hai scritto un libro sulle pizze. Oggi la pizza ha il cornicione altissimo e viene cotta poco. La chiamano pizza ipercontemporanea. Ti piace?
È una delle evoluzioni della pizza. La pizza mangiata attualmente più vicina, secondo me, a quella che si faceva nell’Ottocento, io l’ho trovata a New York. Non solo perché c’è una pizza con le vongole, ma anche per come viene fatta come un secolo e mezzo fa. A metà Ottocento i bordi delle pizze venivano arrotolati, per evitare di far cadere la farcitura. Ora la pizza è particolarmente lievitata e non serve più, ma un tempo si faceva e a New York, dove sono stato io, ancora lo fanno. Poi c’è la pizza al padellino, quella torinese, che assomiglia alla pizza dell’origine napoletana.
Ti piace la pizza di Sorbillo?
L’ho assaggiata venticinque anni fa a Napoli. Buonissima. E poi ha vinto come modello di ristorazione, è questo il punto. Non mi importa come sia diventata. Evidentemente quello che fa funziona.