Gli chef e gli imprenditori hanno questo in comune: che non si deve mai dire loro “bravi”. Perché, caso mai dovessero rendersene conto, finirebbero per perdere tutto: chi le loro stelle Michelin, chi il loro capitale. Tuttavia è difficile risparmiarsi quando si ha di fronte uno chef professionista, con gavetta, che apre un canale sui social in cui insegna a cucinare, in modo intuitivo ma raffinato, e cresce al punto da essere entrato in una famosa agenzia a pochi mesi dall’inizio del progetto. Andrea Giuseppucci, marchigiano, se n’è andato in Francia e a Copenaghen per imparare il mestiere. Ha lavorato al Noma, il miglior ristorante del mondo, non esattamente una mensa qualunque. È un bourdainista, di quelli che seguono la filosofia dello chef Anthony Bourdain: “Poter cucinare in qualsiasi luogo, con qualsiasi materia prima, e creare grandi piatti”. Lo abbiamo intervistato per chiedergli tutto, il piatto che cucinerebbe a Giorgia Meloni e la sua esperienza dal più pop degli stellati, Carlo Cracco, passando per i segreti della pasta al pomodoro e il calice perfetto prima di fare l’amore.
Qual è stata la prima volta che hai cucinato?
Ho un ricordo legato alla cucina molto particolare. Perché ho iniziato a cucinare in età abbastanza prematura, intorno ai dodici anni. Erano dolci. Di solito quando ci si approccia alla cucina la prima cosa che si prova sono i dolci.
A un certo punto hai scelto di andartene in Francia a lavorare con i grandi. Com’è stato?
L’approccio francese e danese alla cucina è molto particolare. Ci sono ritmi differenti e standard lavorativi molto diversi.
Qual è il ristorante più importante in cui hai lavorato?
Sicuramente il Noma di Copenaghen, il migliore ristorante del mondo.
Poi qualche mese fa hai aperto una pagina sui tuoi social. Com’è nata l’idea? E di chi è la colpa?
L’idea è nata prevalentemente da me e mia moglie Eleonora. Era un po’ che mi diceva di provare a mettermi di fronte a una telecamera e finalmente ci ho provato. Volevo cambiare stile di vita. Considera che la vita che ho sempre fatto andava incontro al mio lavoro. Vivevo per lavorare. Oggi la situazione italiana, sia a livello imprenditoriale, aprendo un ristorante, che andando a lavorare per un ristoratore, ti costringe a dare più di quel che ricevi. L’idea, quindi, era di aprire una sorta di ristorante virtuale, che potesse essere anche una scuola online, una enciclopedia, in cui potessero mangiare tutti, con ricette diverse dalle solite con tonno e salmone o vegane.
Vedi Masterchef?
Ho visto le prime tre o quattro edizioni. Lo trovo un programma interessante ma che a differenza di altri, come X Factor, non ha saputo rinnovarsi. Anche se secondo me dà un messaggio giusto, cioè che tutti possono. Perché la cucina non è arte. L’arte è una cosa che resta. Se tutto va bene il cibo dura poche ore, al massimo una notte. Masterchef poteva fare la differenza, ma i giudici sono sempre gli stessi e dicono sempre le stesse cose e vincono sempre i personaggi più eccentrici.
Hai mai mangiato da Carlo Cracco?
Sì, ho mangiato sia da lui che nel suo Carlo e Camilla, uno spin off del suo ristorante.
Come si mangia?
Molto molto bene.
Ti consideri un food influencer?
Se mi dici cosa vuoi diventare e a cosa mi ispiro ti dico: Anthony Bourdain, lo chef che può cucinare dappertutto con qualsiasi cosa e magari può farlo con un abito di Armani o con una camicia che ha preso al mercato. Non so se sono influente nel mio campo. L’obiettivo è dare una mano.
Molti food influencer sono in realtà dei dilettanti, magari inventati cuochi sotto la pandemia. Tu invece hai una lunga gavetta alle spalle. Pensi che tanto dilettantismo faccia male ai professionisti?
No. I social sono uno dei pochi format democratici e meritocratici. Non c’è una giuria se esplodi o no. Non c’è un pubblico se non quello che crei tu. Non c’è un algoritmo che premia chi ha studiato di più. Ti dico la verità: credo ci sia spazio per tutti. Sicuramente il fatto che siano cresciuti più food influencer alle prime armi denota un errore di noi cuochi che sotto pandemia avremmo potuto sfruttare quella situazione per farci conoscere di più e invece, come sempre, ci ha pensato il Millennial che ha visto in quel contenuto verticale una lunghezza, un business figo. Ma credo ci sia mercato per tutti.
Perché hanno così successo i cooking show e le pagine Instagram sul cibo, le serie i film?
Il cibo è rassicurazione, è casa. È anche identificazione. Posso identificarmi in una persona, in un posto, in un ricordo. Il cibo appartiene a tutti. Solo chi non mangia non vive di cibo. Forse è il mezzo più potente che hai oggi. Con un piatto puoi innamorarti o fare innamorate, ma anche uccidere. Puoi fare tutto.
Qual è il piatto che preferisci cucinare?
Non saprei rispondere. Ho cinque o sei cose che amo. Lo dico spesso con Eleonora. Cosa mangerei tutto il giorno? Sicuramente sono un pastaro, il problema è il sugo da mettere per tutta la vita. Un giorno sono per il ragù, un giorno sono più por*o e sono per il fumé.
E quello che sbagli più spesso?
Più che un piatto la pasticceria. È qualcosa di molto esatto e ha un rischio di errore sempre maggiore. Un gran cuoco riesce sempre a modificare un piatto sbagliato. Con i dolci non puoi, perché la pasticceria è esattezza e grammatura. Io mi sento un creativo e improvviso. Quindi nella pasticceria non ho mai trovato un porto sicuro.
Senti, chiaramente non punti solo sulla cucina nei tuoi video, ma anche in uno stile, in un modo di fare seducente. Quanto conta la bellezza e quanto la leghi alla tua cucina?
Se prendi tutti i creator italiani, i più famosi almeno, non è che ce ne siano tanti di cui dire “che figo”. Quindi conta davvero poco. Certo, in termini di crescita aiuta, soprattutto perché una fanbase può guardarti anche per come ti poni e ti vesti. Però non voglio diventi una scusa. Serve avere un personaggio che sia credibile. Tu non mi segui per la mia bellezza ma perché vuoi risottare la pasta. Però vorrei anche dire questo. Io sono come mi vedete, fin da quand’ero ragazzo, non recito.
Alessandro Borghese ha lanciato una polemica perché si sta perdendo la cucina regionale italiana a favore di sushi e cose fighette. Che ne pensi?
Dobbiamo smetterla di dire che c’è una cucina tradizionale italiana. La cucina italiana, soprattutto quella tradizionale, non ha fondamenti. Se prendi una provincia, prendi quaranta nonne e gli fai fare una stessa ricetta, non troverai due persone che eseguono allo stesso modo il piatto. A differenza della Francia, per esempio, in Italia non c’è una classificazione della cucina regionale. E questo è il bello della nostra cucina. Ognuno fa quello che vuole e comunque lo fa bene. Anzi, ti dirò. Vorrei più sushi, ma più sushi autentici. Meno all you can eat e più scelta. Non possiamo mangiare solo pasta al sugo.
C’è un piatto della cucina italiana sopravvalutato?
Un piatto non lo so, ce ne sono molti sottovalutati. Un ingrediente sì. Il pistacchio. Il pistacchio è la rovina della Sicilia nei social. Non esiste tutto quel pistacchio e non puoi fare tutto con il pistacchio, dalla pizza alla tagliata. E all’estero guardano molto al trend del pistacchio. È un peccato.
Qualche tempo fa c’è stata una polemica per la carbonara a trenta euro di Max Mariola. Che ne pensi?
Io penso che la Carmen vista a Opera Garnier non costa come la Carmen vista nel primo teatro di un paesino, perché la prima non solo costa di più, ma chi la interpreta ha un cachet più alto, i costi pubblicitari sono diversi, la gestione è diversa. Vale lo stesso per la carbonara. Parliamo tanto di uguaglianza, di democrazia e di diritti. Io ho il diritto di mettere il mio piatto anche a cento euro. Nessuno ti obbliga a mangiare una volta a settimana la carbonara da Mariola. Lui ha un ristorante a Brera non a Filottrano, ha dei costi, ha magari dieci persone in cucina che lavorano per lui con stipendi alti, è normale che il costo ricada sul piatto. Tra l’altro non è che la carbonara abbia un food cost bassissimo. Perché se prendi un uovo buono, un guanciale buono, un pecorino buono, un parmigiano buono, una pasta buona, un pepe buono, poi ci aggiungi i costi di gestione, l’investimento che deve tornare… a Milano può costare trenta euro, certo. Per me è più uno scandalo bere un succo all’ace in bottiglia davanti a San Pietro e pagarlo quindici euro.
Spesso si parla anche della crisi della ristorazione stellata: debiti, costi esorbitanti e un approccio alla cucina cavilloso e poco umano. La gente preferisce Giorgione. Che ne pensi?
Credo che se parliamo di fine dining, l’errore italiano è stato quello di interpretarlo tutto alla stessa maniera. Fuori dall’Italia è una cosa diversa. A Copenaghen posso fare un pasto a Sanchez, un ristorante che non ha stelle e non ne vuole, mangiare cibo messicano di strada ma fatto bene, spendendo il giusto, restando lì mezz’ora. A Parigi posso entrare in un bar con una stella, mangiare una soup d’onion, alzarmi e andare via. In Italia la concezione del fine dining è vista come un momento che dura generalmente due ore almeno, dove abbiamo quasi dei piatti obbligatori per il cliente. C’è anche una preparazione diversa in Italia. Dal momento che ti siedi al ristorante e mangi passa un’ora di convenevoli e spiegazioni. Diventa una cosa che può appassionare poca gente.
Ti appassiona Giorgione?
Intanto perché ha un’immagine che aiuta anche lui. Poi perché quel format è veloce e intuitivo, è poco costoso. Se non c’è un cambiamento nel mondo del fine dining, non possiamo assolutamente creare futuro in quel mondo lì. È diventato troppo esclusivo per poter crescere.
Qual è stato lo chef stellato italiano che hai amato di più?
Mauro Uliassi.
E il ristorante dove torni più spesso?
Trippa a Milano. È un format pazzesco. Diego Rossi aveva una stella e l’ha abdicata per questo format stile trattoria dove mangi dei piatti fantastici.
E quello che ti ha deluso?
Il Daniel Canzian.
Qual è il segreto della pasta al pomodoro?
Non mettere sedano, carote e cipolla e farla in questi due mesi.
Per la stagionalità dei pomodori?
Esatto.
Come si fa il soffritto perfetto?
Salando subito sedano, carota e cipolla per togliere l’acqua di vegetazione, così ad cucinarlo in modo uniforme, facendolo andare inizialmente a fiamma alta, poi abbassare e sfumare sempre con aceto di mele.
Altra grande polemica: carne sintetica e farina di grilli, entrambe avversate soprattutto da parte del governo. Tu che ne pensi? Sono un problema per la cucina italiana?
Assolutamente no. Anche qui, dobbiamo innovarci, aprirci e accrescere la nostra cultura culinaria. Ci sono farine italiane non di grillo ma di grano che fanno molto più male. Anzi, ben vengano se tolgono dal mercato alcuni prodotti di pessima qualità. Certo, preferisci un pane fatto con al farina di grilli? No.
Qual è l’ingrediente più strano che hai cucinato?
Formiche artiche, quelle molto grandi. Le abbiamo congelate a Copenaghen per metterle in un pesto. Sanno di cioccolato e mirtillo. Buonissime.
Che piatto faresti a Giorgia Meloni?
Secondo me Meloni ha dei gusti semplici. Le farei un riso in bianco con olio e parmigiano. Olio buonissimo.
E a Elly Schlein?
Schlein mi sembra abbia bisogno di vitamine. Quindi un bel succo di frutta fatto in casa.
A casa cucini sempre tu?
Sì, sempre.
Il piatto giusto prima di fare l’amore?
Non si mangia mai prima di fare l’amore. Si beve.
Il calice giusto prima di fare l’amore?
Riesling Auslese, JOH. JOS. PRUM. Ma deve essere almeno del 2005.
E il piatto giusto dopo aver fatto l’amore?
Assolutamente spaghetti aglio olio e peperoncino, tanto non ti baci più.