Da qualche tempo lo chef Max Mariola è la star del binomio social e cucina. È passato da essere conduttore su Gambero Rosso a oltre 9 milioni di follower su Instagram e TikTok. I suoi tormentoni sono la frase: “The sound of love”, detto di qualsiasi cosa frigga soffrigga o bolla e “Quello/a bono/a”, detto dell’olio extravergine e in genere di qualsiasi ingrediente si usi. Mariola ha da poco aperto un ristorante a Milano, in via San Marco, zona Brera. 28 euro per un piatto di carbonara, che “per Milano è pure poco” sostiene Mariola in un’intervista al Corriere. Visto tanto clamore e successo decidiamo di provare anche noi il suo ristorante e soprattutto la sua carbonara. Scopriamo subito che prenotare un tavolo è difficilissimo. Al telefono non rispondono, le prenotazioni si fanno solo online e c’è pochissima disponibilità. Le dure leggi dello hype. Poi, improvvisamente, si libera un tavolo. L’orario è scomodissimo, 22.30, ma per una volta ce lo facciamo andar bene sperando che la ceni non resti sullo stomaco. Con la conferma della prenotazione arriva una spiacevole sorpresa: il ristorante ci avvisa infatti che il tempo di permanenza consentito per mangiare è di un’ora e 45 minuti. Max Mariola mette fretta, che è il contrario di quello che qualsiasi ristorante dovrebbe fare: accogliere il cliente. Mette fretta, e minaccia pure 30 euro di penale se non ti presenti. Lo fanno anche altri ristoranti, beninteso, e risultano egualmente ineleganti. La sera vorremmo andare a cena a rilassarci, non a timbrare cartellini.
Ci avviamo in una una gelida sera di primavera e tra vetrine e arredi di design, una vasca da bagno a forma di uovo e un lampadario a forma di cipolla, giungiamo da Max Mariola. Sembra di stare al bar. All’ingresso c’è un’immensa fila di persone ammassate. I camerieri sono quasi tutti in t-shirt, ma di colori diversi, un po’ a casaccio. Dietro al bancone del bar, fra lampadari simili a cesti di vimini e un soffitto che ricorda un alveare di plastica gialla, appare il mantra marioliano: “The Sound of Love”. Una coppia si dà un bacio proprio al centro della scritta, creando un piccolo momento da Lilly e il Vagabondo.
Finalmente sulle note di Sì viaggiare di Battisti viaggiamo anche noi verso il nostro tavolo, già che le 22.30 sono passate da un pezzo. Veniamo spinti a sederci in gruppo, tre tavoli alla volta, sette persone insieme, e nella confusione non si capisce a chi tocca e di chi sia il turno. La mis en place è minimal, senza tovaglia, e la nostra lampadina a un certo punto lampeggia e si spegne. I camerieri almeno sono gentilissimi ed efficientissimi. Neanche il tempo di guardare bene il menù e guardarsi un po’ intorno e stiamo già sorseggiando del vino e mangiando l’entrée della casa, ovvero un piattino di mortadella servito con pane e un goccio d’olio. Intorno a noi signore cotonate e boccolose. Ordiniamo un antipasto di carciofi alla giudia “quelli scrocchiarelli”. Un piattino a 12 euro. Il servizio è davvero velocissimo, ma più che essere efficienti sembra che ti mettano fretta per mandarti via il prima possibile. I carciofi arrivano e non sono male: croccanti, dal cuore tenero, con una generosa spolverata di pecorino. Buoni, ma niente ti particolare. Forse dovevamo provare le polpette “Piacchiame un po” (apprezziamo la parodia del picchiapò) a 18 euro, coi pomodorini in omaggio.
Come primo abbiamo ordinato la famosa carbonara, che non costa più 28 euro, ma è salita a 30 a persona. Mentre aspettiamo Nada ci canta a palla Amore disperato. Attendiamo il cooking show, non di Mariola, che stasera non c’è, ma dello chef di turno; ma il ristorante è strapieno e il carrello per la pasta, che dovrebbe essere servita accanto al tavolo dei commensali, non passa fra le sedie e dunque lo chef che esce dalla cucina lo intravediamo a distanza a travasare carbonare. Un cooking show nel quale non si capisce granché. Un po’ una fregatura. Dopo qualche minuto sulle note di Maledetta primavera finalmente ci servono le nostre carbonare. L’aspetto è ottimo, il guanciale croccante e la pasta cremosa, anche se è molto salata, e dopo un po’ dà noia. Se non altro, è abbondante.
Mentre siamo alle ultime forchettate dalle canzoni italiane si passa alla disco e l’atmosfera diventa via via sempre più sciolta, e fra signore eleganti e i cuochi che mangiano di nascosto (ma che noi vediamo perché la cucina è a vista e la masticazione segreta non passa inosservata) è tutto molto tipico e leggermente trash. Arriviamo infine al momento del conto e qui però c’è qualche dolore. Con un’acqua e due calici e si fa prestissimo a toccare 100 euro. 100 euro per due primi e un antipasto. Va bene che siamo a Milano, ma altro che “Sound of Love”, siamo al sound della carta di credito che striscia sul pos. Dunque, ci torneremmo? Probabilmente no. Vale la pena? Nemmeno. Ma da uno che dice che “L’Italia deve alzare i prezzi del cibo. La gente comune può comprare lo sgombro e non il salmone” forse dovevamo aspettarcelo. Scemi noi.