Il 2016 consacrava lo chef tristellato Massimo Bottura protagonista assoluto della scena gastronomica nostrana, regalando al Paese per la seconda volta il primo posto nella lista dei Best 50 nel mondo del miglior ristorante italiano. E allora davvero fu tutto un Bottura. Lodato da Renzi, dal quale allora andò ospite, lo chef parlò di quanto la sua Osteria Francescana fosse un faro di know how per i nuovi chef di tutto il mondo, che li avrebbe conclamati ambasciatori della cucina tricolore. Poi ringraziò i pescatori e gli agricoltori, i nuovi eroi che dispensano le materie prime affinché “Si creino emozioni da donare alla gente”. E già qui ci sarebbe da chiarire quale gente, visto il costo di una degustazione presso la sua osteria, ma procediamo con ordine. Era sempre il 2016 e Maurizio Crozza si esibiva in una rivisitazione comica di Luca Montezemolo che avrebbe votato sì al referendum renziano per il superamento del bicameralismo, in preda al disappunto perché il giorno del voto non avrebbe potuto recarsi da Bottura “a mangiare il bollito non bollito” a Modena. Ed ecco che la lasagna della nonna, dunque, in una ottica critica – botturiana - e non nostalgica, diventava “pura emozione”, in un gioco di destrutturazione, volgarmente detta. Quindi il mantra, prendere il passato, la tradizione, per coglierne l’essenza e portarla nel futuro. Otto anni dopo queste parole, alla vigilia della presentazione a Napoli del libro Slow Food Fast Cars, Casa Maria Luigia - Storie e ricette, scritto con la moglie Lara Gilmore, lo abbiamo raggiunto anche noi a Modena a La Francescana - che di francescano non ha niente, a parte la vicinanza con la chiesa dedicata al Santo che parlava con gli uccelli - per una degustazione dei suoi piatti griffati.
Il santuario dello sciamano Massimo Bottura si trova in via Stella, meta di adoranti pellegrini in attesa che venga il momento in cui le porte del walhalla vengano dischiuse ai sudditi paganti meritevoli di accedere a questa esperienza unica, generata dall'input creativo del genio. Oggi siamo dinanzi all’uscio blindato del tempio emiliano, in fila come tanti. Pare di trovarci dinanzi alla banca di Mesa Verde, un oscuro, esclusivo luogo proibito, il quartier generale della Yakuza. Suonando il campanello il portoncino resta chiuso come le chiese quando ti vuoi confessare – cit- e non uno spiraglio dai vetri oscurati da pesanti tendaggi rivela gli interni. Ci sentiamo come Tom Cruise in attesa di un cenno benevolo da parte della Società Occulta nella scena dell’accesso alla villa delle orge di Eyes Wide Shut. A mezzogiorno improvvisamente la porta verde si apre e uno ad uno, in silenzio, sfiliamo sotto lo sguardo inquisitorio e sgomento di custodi del tempio sacro. Noi, spudorati come ci compete, esclamiamo “Fidelio” ed esibiamo un look alla Nino D’Angelo sfacciatamente casual, nu jeans e na majetta per scendere a comprà un etto di macinato sotto casa – per le genti di Milano “cento grammi di trita” n.d.a.- che Barbara Ronchi Della Rocca dell’Associazione Nazionale Cerimonialisti spostati.
Ci pensa la divina Sonia Cassiani, oggi con noi, a nobilitare il nostro impatto plebeo con il galateo da déjeuner stellato grazie alla sua innata eleganza, colta e raffinata vestale di tante trasmissioni del Maurizio Costanzo Show di anni fa, ove era ospite fissa e reggeva confronti con Carmelo Bene con sagacia leggiadria. Ostentando self compliance nell’imporre il nostro arrogante diritto di voler dissacrare a tutti i costi l'occasione - passare da morti di fame senza colpo ferire e con un tot di snobismo, insomma - ci sentiamo degli outsider che sottraggono solennità all'evento, convincendoci che noi non facciamo parte degli adoratori del dio del percorso degustativo. La sala smonta decisamente tutte le aspettative, i tavoli sono cinque in uno spazio verde salvia, distribuiti su un discutibile suolo moquettato a grossi fioroni paonazzi e sbiaditi. Una inquietante porta bianco lattiginosa alla sinistra - che per quanto ci riguarda potrebbe celare la presenza di una astanteria o di un pronto soccorso – minaccia l’attesa di ciò che ci attende. Ci chiediamo cosa impedisca allo chef di sradicarla per sostituirla immediatamente. Le pareti recano un pattern di celeberrimi barattoli warholiani di Tomato soup. Una solenne sfilata di alfieri in divisa recanti preziosi cabaret con il benvenuto dello chef annuncia l’inizio della cerimonia. Dinanzi a noi si palesano dei tris composti da ‘Mare Nostrum’, ‘Sotto la vigna’ e ‘Carbonara’. Rispettivamente un macaron alla menta con mousse di baccalà, una tartare di crudo di daino su chips di mais con il suo infuso di brodo di manzo di Vignola alla ciliegia, una carbonara trasformata in un curioso bozzolo giallo.
Se l’avere tre stelle Michelin significa possedere altresì il potere di ridurre la carbonara in un fagiolo di pasta dalle sembianze di una supposta senza che alcuno si arroghi la liceità di prenderti a mazzate, siamo incerti se inchinarci o farci venire qualche dubbio riguardo la cucina stellata. In sintesi, abbiamo trangugiato i tris come Willy il Coyote ingoierebbe Beep Beep il Road Runner se potesse, apprezzando l’elisir di manzo alla cerasa e meno il daino. A seguire la truppa in livrea ci presenta la simpatica ‘patata che vuole diventare un tartufo’, dove la patata è una pagnotta farcita di crema del medesimo tubero, nocciola e tartufo. E qui si evince la travolgente sagacia dello chef. Sostanziosa come un panino del buffet alla festa delle medie mentre balli Il tempo delle mele alla Cabala con il più bruttarello della classe, hai un vestito in taffetà che non ti dona e sono gli anni ’80. Ed ecco giungere un ‘Camouflage Sud’, ovvero una rapsodia di crucifere in crema a coprire il fondo di un cosiddetto ‘cappello del prete’, simulante un classico tessuto mimetico nei colori del verde chiaro, militare e crema, sormontato da una piccola cialda di varie consistenze dell’ortaggio e coriandoli di cicoria.
Ottimo e bellissimo e forse vorremmo emulare Gasperino er Carbonaro quando sentenziò al servo fedele di Palazzo del Grillo “bono, butta giù”, scaraventandosi nel piatto tutta la zuppiera. Per accompagnare, non un vinello della Vigna del Mascherone come quello che piaceva al carbonaro, ma un più virtuoso estratto di carciofo tiepido in fine porcellana. Tra un commento sul tappeto a fioroni ed uno sulle variegate stoviglie personalizzate, giunge ‘Un pesce come un tortello di zucca’, ovvero un francobollo di dentice con crema di zucca e zucca disidratata, quota proteica di questo menù a degustazione ‘breve’, privo anche dell’accompagnamento dei vini. Non ricorderemo il dentice come la cosa più buona mangiata in vita nostra.
Lo chef ha pensato di stupirci poi con ‘Le lenticchie sono meglio del caviale’ e solo per farci una ragione del fatto che nel piatto non ci sia traccia di lenticchie impieghiamo dieci minuti. Per quanto ancora non ne siamo sicuri. Con la Sonia avvertiamo in maniera indiscussa la consistenza di un cereale, come la fregola di grano duro – tipica pasta sarda – con granchio blu, anguilla arrostita, crème fraiche e nero di seppia. Insomma, secondo noi una fregola che sembra lenticchia ma sembra caviale, anche se “ci dicono di no”, come a Rosa Chemical. Nulla da segnalare per il ‘Tortellino o dumpling’, continuando il gioco caro a Bottura di un piatto che vuole diventare qualche altra cosa, travalicando il concetto di cucina italiana per rompere le regole e andare oltre. Il tortello emiliano confezionato come un raviolo asiatico in brodo di pollo al sentore di alghe è buono, ma per quanto noi vorremmo essere boni quanto Angelina Jolie e Brad Pitt, parimenti sto tortello non sarà mai sontuoso quanto un piatto di tortellini panna e prosciutto, I beg your pardon, Sua Eccellenza. Osiamo rimandare indietro un piatto a base di animelle e ciò determina la stima indiscussa di un suddito fedele al tavolo accanto di questo partèrre de rois tirato a lucido. I plausi – e gli spari sopra – sono per noi.
Concludiamo con uno chef d’oeuvre, ‘Consistenze di latte e erba’, dove la pelle del latte essiccata e abbrustolita come una cialda va a racchiudere un soufflé di latte condensato e caramello salato della dimensione di una moneta, su gelato di fieno, clorofilla e siero, arricchito da un bubusettete di spruzzo di ‘spray delle campagne modenesi’ alle spalle a sorpresa da parte del maitre di sala, che ci ha portato in un puff su un alpeggio fresco di aratura, “per un omaggio alle vacche modenesi senza le quali non ci sarebbe l’ottimo latte della zona” -cit. E li, con i sensi più sull’Alpe di Siusi che a Modena, la performance ci stende sul serio. Inebetiti dai vapori olfattivo di pascoli emiliani e circa tre ore di percorso gastronomico serrato vacilliamo, ma la rock star non esce ancora a raccogliere il plauso dei fan, che dissimula segni di panico e incipienti crisi mistiche. “Di chi è il tappeto? Anche questo è frutto del gusto dello chef?” Domandiamo non rassegnandoci ancora, mentre assaggiamo la zuppa inglese scomposta en travesti, intrappolata in una simil busta di cellophane di gelatina – sarvate Mandrà cit -.
“La moquette è un’opera di Marcel Wanders”, è la risposta, mentre ci alziamo per andare ad esaminare il cesso, che si rivela angusto e dal deprecabile porta carta igienica in metallo, tipo Ikea. Ed è allora che Mister Bottura in persona irrompe nella sala come il Cristo risorto nel cenacolo, tra i discepoli, concedendo selfie a destra e a manca. Lo sguardo dell’Illuminato ci rimanda l’immagine della nostra scabrosa allure da scappati di casa: “chi so sti poracci?” pare voglia dire, chiedendoci invece se ci stiamo divertendo. Ignora, il Maestro, la gragnuola di domande che di qui a poco si abbatteranno su di lui, costringendolo a rimboccarsi le maniche per quello che ci appare come l’ennesimo show. Noi inanelliamo la prima figura di merda informandoci sull’ossessione per le zuppe di pomodoro di Warhol e il Sommo ci bistratta con un secco “Se mi chiedete una cosa del genere vuol dire che non avete fatto i compiti a casa”.
Presi con le mani nel sacco della nostra innegabile arrogante ignoranza incassiamo. Come abbiamo potuto non pensare che l’arte è sempre stata, insieme alla poesia e alla musica, il landscape of ideas dello chef? “Sono quarant’anni che faccio collezione di arte contemporanea e sono legato alla Galleria Mazzoli di Modena che per prima nel mondo ha esposto Basquiat. Come la Costiera Amalfitana, le città d’arte, le Dolomiti, noi abbiamo la cultura. E la cultura è l’ingrediente più importante del cuoco del futuro”. Noi come schiacciasassi continuiamo ad inchiodare il poliedrico, schizzato Maestro alle sue responsabilità, forti del fatto che tra poco sborseremo trecentoventi verdoni a testa per una degustazione francescana, esclusi i vini abbinati, che avrebbero fatto salire la cifra a cinquecento bombe. “La cultura genera conoscenza e la conoscenza genera responsabilità”, sciorina Bottura.
“Sa, per trenta ospiti qui lavorano centodieci persone che credono in questo diktat. Nel mondo siamo circa un migliaio ora. Nasce questa idea di aprire un ristorante affiancato da una mensa per le persone in difficoltà”.
Intende Il Tortellante?
“No. Quello è il laboratorio per insegnare a fare la pasta fresca a ragazzi con sindrome genetica e donne. Le mense nascono dall’Esposizione Universale di Milano, di Rio di Parigi e oggi ne abbiamo tredici, con dodici ristoranti. Ogni ristorante che apriamo deve avere una mensa. A Parigi mi ha chiamato l’Arcivescovo, abbiamo ristrutturato le cripte della Madeleine e ora la mensa è li. Poi c’è la mensa di Londra a Earl’s Court. C’era un magnate della stampa che aveva in mano una fondazione che non stava andando bene in un meraviglioso palazzo gotico e mi ha detto ‘Cosa ne pensi di portare il refettorio a Londra dietro St. Cuthbert?’ Ho cercato i finanziatori ed è nata la mensa comunitaria Felix”.
Tiene molto al sociale e alle mense?
“È la cosa a cui tengo di più. La cosa più bella che abbiamo è la credibilità e tutti arrivano quando io chiamo un architetto, un artista, un designer. Abbiamo poi aperto a New York, dove c’è un pastore cantante di Harlem e una chiesa abbandonata, io sono brand ambassador di Gucci, ho chiesto al brand di investire e restaurare tutta la chiesa. Ora tutti vanno a visitarla”.
Il Made in Italy gira?
“Cerco di coinvolgere artisti ed architetti del design locale. C’è questa vecchia cappella del ‘700 qui a Modena, abbiamo coinvolto uno dei più bravi street artist d’Italia che fa graffiti, (Luca Zamoc, modenese, classe 1986) che ha affrescato la cappella della mensa la Ghirlandina in collaborazione con Food for Soul, l’associazione no profit fondata da me e mia moglie Lara, rappresentando il miracolo di San Geminiano, i barbari che passano per Modena nella nebbia e la lasciano intatta”.
Il Maestro parla, gesticola, declama, dimostra, giustifica, ripete come se l’avesse fatto milioni di volte. Capiamo che la vera esperienza è Bottura stesso, fa venire voglia di campare. Ci tiene a raccontare le sue folli trovate.
Lei si diverte?
“Moltissimo. Ero con il padre dell’intelligenza artificiale a Stanford per raccontare ai ragazzi la mia esperienza di vita, mi ha fatto dialogare con l’intelligenza artificiale ma l’abbiamo messa in difficoltà. Assorbiva tutte le follie della mia testa, ma l’intelligenza artificiale non maneggia l’irrazionale e per creare ‘Oops mi è caduta la crostatina al limone’ del miglior ristorante al mondo lei non ti viene dietro. Ma se hai cultura conoscenza, responsabilità e coscienza tu sai spiegare perché rompi una crostatina al limone. Dall’imprevisto dell’errore – ed ecco uno dei cavalli di battaglia – è nato il modo di esprimere la crostatina al limone; Il mio giapponese ha fatto cadere la crostatina e stava per fare harakiri ma io gli ho detto ‘sei un genio’. Mi ha risposto ‘che cosa sta dicendo chef?’ Scomponendo quella crostatina al limone tu scopri il sud dell’Italia, trovi i limoni di Sorrento, la mandorla di Noto, il bergamotto calabro e trovi l’essenza, che è poesia pura. E quella o ce l’hai o non ce l’hai. Se ce l’hai esperisci, non ti arrabbi per l’errore perché leggi l’esperienza con l’anima, ti godi il percorso”.
Aprirà mai a Roma o non se lo merita?
“Stiamo lavorando per aprire un refettorio”.
Roma non si merita un ristorante?
“Dove ho il refettorio non voglio un ristorante, bisogna fare delle scelte. A Napoli c’era il Lanificio e c’è uno dei più bei refettori del mondo, un posto dove andavano a suonare Lou Reed con Laury Anderson. Esattamente quello che noi vogliamo, bellezza, perché nella vita conta solo quella e vogliamo la condivisione della bellezza”.
Chi stima tra i cuochi nel mondo?
“Ne stimo molti, ma uno su tutti è José Andrés. Portava cibo in Palestina e hanno ucciso sette dei suoi ragazzi. Lui è una persona eccezionale.”
Ci chiediamo dove sia il montaliano ‘anello di catena che non tiene’, per capire perché Massimo Bottura incanta, quale sia il suo segreto, in quale esatto momento ci frega, dove finisca il bluff e inizi la verità ma quando si comincia a scoprirlo già si è finiti nella sua tela perdutamente affabulatrice. Uno sguardo al Giano Bifronte, omaggio a Modena e all’arte di Luigi Ontani sulla porta, il tempo di gradire l’omaggio di un aceto balsamico di Modena come souvenir, in mano, senza bustina, e via in direzione Torta Barozzi! Arriviamo!