All'Osteria San Cesareo, nelle campagne laziali, arrivavano da tutto il mondo per le sue specialità romanesche premiate da Heinz Beck. Lei ormai era presenza fissa in televisione da Benedetta Parodi: stiamo parlando di Anna Dente, la chef nata contadina e macellaia che nobilitava il “quinto quarto” e rilanciò i piatti della tradizione laziale e romana con materie prime sceltissime in un ambiente intimo campagnolo, sulla piazza di San Cesareo, da dove partì letteralmente la conquista del mondo. Ora che Anna non c'è più, ci pensa il figlio a portare orgogliosamente la bandiera della cucina romana e laziale, in memoria della madre e dell'arte che ha respirato sin da ragazzino. È un purosangue Alessandro Ferracci, si vede (e si sente) da tutto ciò che dice e che cucina nel nuovo spazio Contesto Urbano. Lui è la mente di questo menù che siamo andati a provare in zona San Giovanni, a Roma, proprio dietro casa di Francesco Totti (quella dove è cresciuto). Il ristorante ha una cucina a vista che affaccia sul marciapiede grazie ad una grande vetrata, cosa che ci è piaciuta parecchio. Le cucine a vista danno fiducia, invitano ad abbandonarsi ai piaceri della tavola senza apprensioni, perché parlano della serenità del cuoco e del sapere il fatto suo. Del suo non avere nulla da nascondere. Alessandro è un tipo di cuore, gioviale, non se la tira per niente ed è un piacere parlarci di tutto. Ci ha subito inserito nel Contesto portandoci un assaggio di cuffia di trippa fritta dorata, una novità come aperitivo, ottimo con una bolla, suggerisce. Le strisce di trippa sono croccanti come patatine, leggerissime, davvero sorprendenti, così “soffiate” e ricce. Poi ci ha aperto lo stomaco con un carciofo romanesco alla giudìa che era un fiore di bellezza, senza pelo e fritto a dovere. Esiste tutta una filosofia su questi carciofi, vere e proprie icone di Roma da cogliere nel giusto periodo: mai a novembre e mai surgelati, come fanno tanti ristoratori al Ghetto, ma “solo quando è tempo”, come diceva Anna Dente, e solo quelli romaneschi, grossi e zuccherini. Insieme è arrivato un crostone al pomodoro infornato, buono, una “scarpetta gigante” simpatica alla quale non puoi mettere il muso. Anche la trippa alla romana classica col sugo ricoperta da un bagno di pecorino romano era mondiale. Forse avremmo abbondato con la menta, che nella trippa è “la morte sua”. Come piatto forte abbiamo scelto un “Burger Epiro”, con manzo, pomodoro confit, mayo fatta in casa, senape, cipolla rossa caramellata, guanciale croccante, pesto di pomodorini infornato e misticanza, davvero notevole, con le sue brave patate tagliate a mano e fritte. Accanto Alessandro ci ha portato una concia di zucchine, non comune da trovare purtroppo nei ristoranti, nemmeno quelli ebraici, specialisti in piatti della tradizione; un vero peccato perché è indimenticabile, nella sua semplicità. Si tratta di zucchine fritte condite con l’aceto, aglio e abbondante menta. Attenzione, non la mentuccia (o “nepitella”, quella che si usa per i carciofi alla romana). Con Alessandro abbiamo chiacchierato di cibo e di Roma, di vecchie tradizioni e dei ricordi della sua famosa mamma, tra un boccone e l’altro. Noi, comunque, a Contesto Urbano diamo 5 alla location, 5 al cibo, 5 al servizio, 5 alla cortesia e 5 al prezzo; consigliatissimo.
Alessandro Ferracci, com’era tua madre?
Era schietta, diretta, per questo spesso invisa da qualcuno.
Come ha cominciato il suo percorso in cucina?
Lei ha iniziato ridando dignità al “quinto quarto”, quella parte dell’animale con la quale venivano pagati gli scortichini al mattatoio a Testaccio, tanti anni fa. Le parti di scarto, le interiora appunto, che poi le mogli di questi operai che sezionavano le carni cucinavano attorno a Monte Testaccio. Quelle antiche osterie in Via Galvani oggi sono diventate ristoranti famosi che tutti conosciamo: Checchino, Pecorino, Angelina. La trippa, la pajata, le animelle, la coda, la coratella; da quelle rigaglie sono nati i cavalli di battaglia romaneschi.
Perché nei ristoranti romani non si mangia spesso la cucina tradizionale? Solo ultimamente assistiamo a un timido rilancio.
Roma ha fatto un grande, madornale errore: si è vergognata della tradizione. Negli anni Novanta la cucina nei ristoranti romani ha iniziato a virare in preparazioni nuove, escludendo i piatti tipici che da noi sono moltissimi. Nemmeno Napoli ha così tanti primi. Ne avranno due o tre, ma ne sono sempre stati fieri. Roma possiede una infinita varietà di specialità, basti pensare alla gricia, alla cacio e pepe, all’amatriciana, i cannelloni, piatti di una bontà superlativa ma che non abbiamo saputo valorizzare. Sono spariti gli involtini al sugo, il vitello alla fornara, le polpette, l’abbacchio. Ultimamente poi pare che esista solo la carbonara, che manco è romana di nascita. Io porto avanti la tradizione romanesca perché è giusto ed è ottima.
Sempre più spesso in cucina troviamo manovalanza straniera e pochissimi giovani chef italiani, eppure i ragazzi che frequentano l’alberghiero ci sono. Che fine fanno?
Sono presuntuosi. Vogliono comandare ma disdegnano la fatica della cucina vera e propria, che è impegnativa.
Anche se ben pagati?
Si, anche se ben pagati e non hanno voglia di lavorare.
Chi è annoverato nelle guide stellate è sempre meritevole?
Spesso chi arriva è “ammanicato”. Mia madre aveva un carattere forte, libero e non godeva di agganci. Ma se c’è “lo stacco” di qualità, non esistono raccomandazioni che tengano; il valore è innegabile, quando c’è. Soprattutto Roma è vittima di questo sistema clientelare, al contrario di Milano che è molto più meritocratica e arriva chi se lo merita. Penso che sia normale che vadano avanti i raccomandati, ma anche chi ha talento ed è un cane sciolto deve trovare giusta soddisfazione.
Quanto è importante essere liberi?
È tutto. Infatti non voglio vendermi al sistema scendendo a compromessi. Qui a Contesto Urbano sono libero e Stefano il proprietario mi ha dato fiducia, per questo lo ringrazio.
Roma parla tanto di carbonara ma poi pochi riescono a cucinarla davvero a regola d’arte.
Sì, è vero. Io poi preferisco altri primi romani, ma la carbonara ha cannibalizzato tutto. A ogni modo Roma deve rimanere fedele a se stessa e smetterla di voler piacere a tutti, perdendo la sua identità.