Sono a Buenos Aires e vi scrivo calato nei panni di un migrante italiano alla ricerca di se stesso attraverso i sapori dei piatti e le loro storie culinarie, condivido le riflessioni di un expat appassionato di cucina, ma soprattutto di “comida” che tuttavia si trova in una nazione (storicamente, e quindi anche adesso) in preda a costanti cambiamenti, tra disillusioni e speranze di riscatto dalla povertà che aumenta, in preda a una precarietà economica profonda dalla quale possono nascere i peggiori scenari politici. Io, comunque, nel bene o nel male ho sempre avuto questa come risposta ai mali del mondo, mangiarci sopra. Altro non so e non posso fare. Oggi infatti – veniamo al dunque – tra il mordere e il masticare, sono andato a mangiare in un ristorante molto conosciuto per la sua cucina italiana a Buenos Aires. Morderò un po’ più forte dato che ho appena appreso che un provvedimento di Milei (il bizzarro presidente argentino eletto a novembre) ha rimosso il linguaggio inclusivo dai pubblici uffici, così come ha tolto i poteri al Ministeiro de La Mujer che era stato istituito a difesa delle donne maltrattate e della disparità di genere. Anche chi non è d’accordo deve ammettere che è una mossa populista e aggressiva, dato che il presidente argentino sta faticando a ottenere i risultati promessi. Sembra sia la solita strategia che non lo rende affatto speciale rispetto ad altri uomini arrivati al potere, così come sull’aborto e su altre tematiche che definisce proprie di non si sa quali teorie “marxiste” ma che in realtà sono semplicemente faticosi traguardi delle società tardocapitaliste per mettersi ai ripari garantendo diritti che altrimenti proprio le ideologie di Milei smantellerebbero. Lui smantella, come San Martino con la mazza o Batman ubriaco. È rimasto al capitalismo della deregulation?
Ma passiamo ad altro, così, a caso come nei diari di Pavese, o come accade nella mia testa stando qui in Argentina. Perché ovviamente non smetto di seguire Masterchef in differita e all’uscita di Nicolò, uno dei concorrenti più brillanti dal punto di vista del linguaggio e della comunicazione e una discreta dose di coraggio, come molti, sono rimasto affascinato dalla frase che il concorrente, nel rispondere alla solita domanda dei giudici: chi vincerà Masterchef? Ha detto: “Francamente me ne infischio”. Citazione dal finale del film Via Col Vento che in inglese è “Frankly, my dear, I don’t give a damn!” Damn! Una parola che all’epoca fece scalpore perché veniva considerata volgare, oltraggiosa, forse la prima parolaccia del cinema americano (tra l’altro un giorno vi dirò di un mio antenato che fu il primo a dire la prima parolaccia nel teatro inglese, molto tempo prima, la parola era proprio la stessa “damn”, dannazione!). Nel nostro cinema anche noi abbiamo avuto la prima parolaccia, ovvero “vaffanculo”. Pronunciata da Totò nel film Il ratto delle Sabine nel 1945. Un film che condivide un immaginario legato al cibo molto interessante e che fotografa quegli anni di povertà e ricostruzione del Paese, anche grazie ai tantissimi che se ne sono venuti oltreoceano. Le parolacce hanno un valore culturale inafferrabile e antichissimo, si riferiscono a tutte le sfere della nostra esistenza e in particolare quelle legate all’apparato sessuale e metabolico. Qui per dire “coglione” si dice “boludo/a” che deriva come al solito dal Lunfardo e ricorda le “bale”, le palle. Dai greci agli antichi egizi le parolacce seguono nello stesso binario l’evoluzione del linguaggio umano. Ed è per questo che ho scelto il ristorante dove registrare il mio nuovo reel questa volta, senza filtri. Il Vaffanculo, noto e apprezzato locale della capitale argentina. Sono stato al Vaffanculo, una “cantina italiana” come recita l’insegna, che si trova nel quartiere di Palermo, zona Las Canitas, una zona rinomata per essere diventata un cosiddetto food-district. La prima cosa che ho sentito di questo quartiere, quando non ricordo quando e con chi, ma parlavamo di empanadas, dei ripieni di questo panzerottino croccante, si diceva che Las Canitas è territorio di sperimentazioni, ci sono empanaderie che all’aperitivo servono empanadas rellenas (ripiene) che vanno oltre quelli tradizionali, addirittura al gusto cheesburger o con formaggi francesi o cipolle caramellate. E credetemi, gli argentini amano il loro cibo almeno tanto quanto noi italiani, per quanto sia composto da relativamente pochi piatti ed elementi, sono gelosi e golosi delle proprie pietanze, quindi questa piccola fetta del quartiere Palermo, rappresenta un unicum. Questo solo per descrivere le mie aspettative quando poi ho visitato il quartiere Las Canitas, non era il paese di Cuccagna come lo immaginavo in maniera medievale, dove mi aspettavano distese infinite di parmigiano reggiano sulle quali sciare, ma la densità dei ristoranti, panifici e pasticcerie e dei kioskos che affollano le strade è davvero impressionante. Da adesso in poi quando mi manderanno a quel paese, penserò comunque a Las Canitas. Un po’ come andarci davvero a Vaffanculo.
Quello che abbiamo mangiato farebbe impallidire l’italiano medio: carbonare con prezzemolo e tuorlo d’uovo crudo, mantecate in una forma di formaggio reggianito (la versione parmigiano/parmesan argentina) dove erano state mantecate chissà quante altre paste di altri italo-argentini o clienti di ogni genere. Sul serio è arrivata questa forma intera scavata al centro sorretta da una struttura in metallo che imprigionava il formaggio; il cameriere sperava che il calore di una pasta piena di panna bastasse per far sciogliere il formaggio ma non è stato così. Delle piccole vaschette contenenti prezzemolo accompagnavano la mise en place, pancetta, e quel povero tuorlo d’uovo dissolto poi nel grasso candore della panna, o come direbbe chef Ruffi ‘’la versatile’’. Tuttavia me la sono spazzolata, eccome, facendo scarpetta con dei buonissi panificati alle olive. Si chiamavano Linguini a la Vaffanculo. La pasta era scotta, purtroppo, ma io amo queste cose, sono qui per questo, mi piace pensare di arrivare al cibo come una parolaccia per un comico, fa ridere se è calata nel contesto. E ripeto mi ci calo nel contesto, rido a pancia piena di queste sperimentazioni del tempo che gioca coi gusti e li trasforma. Un piatto come la carbonara con la panna in Italia oggi è un’eresia ma trent’anni fa non lo era, un po’ come dopo l’avvento di Barbieri in 4 Hotel è stato abolito il “runner” nell’immaginario collettivo, quella striscia inutile di stoffa sopra il letto, così hanno fatto i social per la panna, e in generale per la cucina italiana. Certi ingredienti oggi sono un po’ come una bestemmia in chiesa o una parolaccia a scuola, ma certe preparazioni italo-mondiali di piatti caratteristici in giro per il mondo stanno bestemmiando e parolacciando alla grande, e io che sono un amante del cibo per come l’ho conosciuto in Italia, vacillo, perché a me piacciono anche le cose che si rompono o che si riparano con l’oro come quella tecnica sui vasi giapponesi di cui non mi ricordo mai il nome. E soprattutto mi interessano i percorsi storici complessi e labirintici e non l’invenzione della tradizione. Chiamarle “parole cattive” o piatti cattivi non è altro che un atto di codardia che incolpa questi inoffensivi vocaboli istintivi (e piatti) questi intercalari o frasi (o ingredienti), ai quali vengono affibbiati comportamenti e sentimenti di cui sono totalmente estranei, eccetto per la responsabilità che hanno avuto nel dar loro un nome. In poche parole non esistono piatti brutti o cattivi perché la storia dei gusti è la storia delle parolacce se un tempo ci stupiva damn! E nell’antico egizio già ti insultavano la madre o in Grecia, ho letto, bestemmiavano usando “cavolo”, come non esistono parole brutte o cattive, oltre al contesto da tenere in conto, ogni piatto e ogni parola portano con loro una storia e quando assaggiamo qualcosa è sempre lo sforzo di una persona che ci ha accolti a casa sua, e se mai arriveremo a una confidenza tale da intercalare qualche parolaccia allora ci meriteremo la fiducia, solo con la fiducia sapremo cosa e dove mangiare la prossima volta.