Attualmente mi trovo in Argentina, a Buenos Aires, come corrispondente dall’estero, e in particolare, vestendo i panni del “migrante italiano” alla scoperta della cultura argentina. In questo momento sto seguendo Masterchef da qui, in differita, e sono qui per assaggiare i numerosi piatti nazionali e scoprire i sapori di una terra che ha accolto, a cavallo tra Ottocento e Novecento, milioni di italiani. Qui oggi ci chiamano proprio come allora: “tano”, diminutivo di italiano, con un affetto smisurato e con un po’ di sfottò, che non ha niente a che fare con l’odio per il migrante che abbiamo e abbiamo avuto noi, nei confronti di nordafricani e albanesi. Non a caso a Sanremo, anche Ghali ci ha riportato a riflettere su questi temi (anche se lo ha fatto con una canzone di merda), ribadendo la sua libertà, un po' “alla Gaber”, un po’ come dire “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. Con lo stesso affetto, gli argentini provano (senza riuscirci sempre) a contaminare la cucina del bel Paese con gusti e tradizioni sudamericani. Purtroppo, l’eredità culinaria si è persa con le generazioni, o meglio, si è cristallizzata. È passato il tempo, così come sono passati i vari dialetti migranti: vedi il lunfardo, che è la lingua del tango argentino, il cocoliche, che è tipo il verlan francese (quello del famoso film l’Odio), o il nostro riocontra, che usavamo a catechismo per bestemmiare senza farci capire dal prete. Rimangono nella cultura gastronomica argentina parole e piatti come la “milanesa a la napolitana”, gli “niochi”, il sugo “filetto” o la pizza “muzza”, che possono sembrare un meme, ma anche un’eredità da sostenere. Io la sostengo questa eredità, così come quella italo-americana, perché ci ritrovo un fascino decadente, come la sensazione di entrare dal pizzicagnolo e incontrare personaggi come Settimino di Masterchef davanti alla sua affettatrice. Purtroppo, Settimino è uscito alla 17esima puntata, lasciandoci senza le sue manipolazioni linguistiche, degne di una lingua immaginaria - quella di quando si ha necessità di comunicare anche se non si può - che ricordano proprio i migranti italiani dell’epoca, contadini non scolarizzati (anche se in questo caso il Paese in cui è immigrato Settimo è il 2024). Un piccolo genio a suo modo, più di molti altri concorrenti solo all’apparenza “contemporanei”.
Mi ricorda il salumiere da cui andavo dopo la piscina a Venezia. Si chiamava Armandino. Tra la fine degli anni Novanta e il 2000, andavo da lui a prendere il panino con prosciutto e formaggio a un euro e cinquanta. Era una un tipo alla Donato di Con Mollica o Senza, solo che da Donato a Napoli, oggi, un panino si paga oltre dieci euro. Insomma, non per tutti e non tutti i giorni. Devi fare la fila, è esclusivo e popolare in un modo diverso. Mangiare genuino con prodotti locali - o mangiare “casero”, come dicono a Buenos Aires intendendo ‘casereccio’, cioè accomodandosi fuori - oggi è un lusso in Italia. Qui a Buenos Aires, nonostante l'inflazione invece, no. Il successo di Donato De Caprio però rappresenta un fenomeno molto più interessante, perché avviene nell’epoca del foodporn, degli smash burger e dei foodblogger: un'epoca dove la realtà di un bambino è divisa con quella virtuale dei social. I giovanissimi conoscono più la cucina americana paradossalmente, più giocosa e golosa, e si ritrovano la sera al Mc Donald, e non più dal pizzicagnolo sotto casa. Il salumiere è stato sostituito dai supermercati, ma i ragazzi non vanno da soli a fare la spesa, come potevano andare dal salumiere che aveva un rapporto di fiducia con i genitori. Invece Donato ha restituito, attraverso i social, il rapporto con i prodotti locali a una preadolescenza social.
Tornando a Masterchef, non perdonerò mai Nicolò (che prima mi stava simpatico) e Cassandra (antipatica da subito), per aver eliminato Settimino, sottraendo proprio al pizzicagnolo pugliese gran parte degli ingredienti e sfruttando un vantaggio nell’invetion test, lasciandolo così alla deriva. Quando Settimino c’era ancora, durante la prova in esterna della 16esima puntata, il mondo era meraviglioso. I concorrenti sono stati messi di fronte a una sfida curiosa, difficile e impensabile: la pasta alla brace. Infatti, l’ospite d’onore era lo chef stellato Errico Recanati che dal suo ristorante Andreina di Loreto (Ancona) prova (e riesce con successo) a integrare le antiche tecniche di fuochista ereditate dai nonni, con l’altra cucina contemporanea. “C’è qualcosa di primordiale” racconta chef Recanati, nella cucina alla brace. Ma c’è anche nelle migrazioni, e qui mi ricollego col discorso dell’inizio. Quando ci si avventura per Buenos Aires, infatti, ci si imbatte in locali stile anni Settanta, dove si respira autenticità, si prova una nostalgia per luoghi mai vissuti e si pensa che forse una parte d’Italia si è staccata ed è rifiorita qui, tra le intercapedini di una capitale gigantesca, soprattutto considerando il repentino restyling degli interni di molti locali in Italia, che ne ha cambiato l’anima, rendendoli freddi e fake. Il rapporto dello chef stellato con la brace e col fuoco, è lo stesso rapporto che vorrei coltivare con le mie passioni, e in questo caso, ho capito come la cucina contemporanea è in grado di comunicare un pensiero, trasferirlo, ispirare. Per ringraziarlo di questa brace di pensieri, un po' poetici e patetici, sono salito al decimo piano del mio palazzo nel quartiere di Palermo a Buenos Aires dove come in ogni altra abitazione della città c’è una parrilla (la tipica griglia argentina) e ho fatto la carbonara alla brace. Ecco le foto e il Reel.