“Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più. Ecco nel calore incantato della notte che piena quaggiù tra le curve del fiume e le sopite visioni della città sparsa di luci, scheggia ancora di mille vite, disamore, mistero, e miseria dei sensi, mi rendono nemiche le forme del mondo, che fino a ieri erano la mia ragione d’esistere. Annoiato, stanco, rincaso, per neri piazzali di mercati, tristi, strade intorno al porto fluviale, tra le baracche e i magazzini misti agli ultimi prati. Lì mortale è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, alla stazione di Trastevere, appare ancora dolce la sera” (Le ceneri di Gramsci). Lo scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1957. In questa poesia il poeta e intellettuale di Casarsa esprimeva tutto il suo amore per Roma e quello struggimento di purezza che questa città era in grado di fargli scoprire, nelle borgate dei poveri, così lontani ancora da quell’omologazione che presto, a causa del progresso recato dall’industria dei consumi avrebbe ingoiato quel modo di essere diretto, verace e semplice che affascinava il poeta. Vediamo Pasolini camminare nei pressi di Ostiense e di Ponte Marconi, dove il Tevere fa un’ansa tra la Basilica di San Paolo e la Piramide Cestia, in quei suoi ultimi giorni di vita, quando aveva già iniziato a scrivere le verità riguardo alla morte misteriosa di Enrico Mattei, nel suo romanzo incompiuto, Petrolio. Chissà se Pasolini immaginava di fare una fine analoga a quella dello statista, che aveva iniziato i lavori per il suo Piano Mattei. La sera del primo novembre del 1975 Pasolini tornò a cena nel ristorante dove era cliente e aveva un conto aperto. Lì, in quel tratto dell’Ostiense, presso una vecchia osteria che dal 1915 rifocillava gli operai e i registi della vicina Ponti-De Laurentiis, fu l'ultima sera che Pasolini cenò. Pino Pelosi, uno dei suoi “ragazzi di vita” incontrato poco prima al Bar Gambrinus davanti alla Stazione Termini, lo portò in quel piazzale polveroso – per anni dimenticato, oggi vi è un piccolo memoriale – presso l'idroscalo di Ostia, dove fu drammaticamente ucciso in circostanze ancora non del tutto chiare, come è noto. Il fotografo dei vip Rino Barillari, che incontrammo tempo fa, ci disse che fu uno dei primi a recarsi sul posto quando giunse la notizia dell’omicidio e che Pasolini aveva con sé la tessera dell’ordine dei giornalisti, un anello, un pettine e un taccuino.
Quella vecchia osteria oggi è ancora li sull’Ostiense, affacciata su quel tratto di Tevere, tra il Gazometro e i vecchi Mercati Generali in degrado, la cui riqualificazione non è mai terminata a causa dell’interruzione del progetto da parte della giunta dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, ennesimo atto vergognoso del Comune di Roma Capitale. Noi siamo andati sulle tracce del celebre regista, poeta e intellettuale per rivivere quei pranzi romani in quell’osteria che amava e nella quale era di casa. Al Biondo Tevere ha ancora l'insegna di tanto tempo fa, la veranda nel cortile che dà sulla strada e l’entrata nella sala interna con il forno a legna per le pizze. Tutto sembra rimasto fermo al 1975. Pasolini è ovunque; ritratto alla macchina da presa, nei vecchi articoli di giornale incorniciati, nelle foto. Con lui Alberto Moravia, Anna Magnani nelle scene di Bellissima, film girato presso la trattoria, con le foto d’epoca di Via Ostiense molto diversa da ciò che è oggi, trafficata e sozza. Le fotografie mostrano una strada bianca di quelle che i romani nostalgici e non di primo pelo ricordano, quasi deserta, rassicurante. Racconta com’era andare a mangiare in trattoria in quegli anni a Roma, con il sole di mezzogiorno, la chiesa alle spalle, la semplicità di un piatto di coccio con un pomodoro tagliato e la cura modesta e dignitosa della gente romana di prima. Noi abbiamo salito gli scalini accanto al forno a legna accedendo a una grande sala con una gigantografia della Pietà di Ernest Pignon-Ernest, con il martire Pasolini sorretto da se stesso e una veranda sul fiume spettacolare, dalla quale ci si affaccia sugli argini del Tevere ricoperti di canne, che ormai nessun romano moderno vede più. Quegli argini selvaggi oggi dimenticati, prima erano frequentati da pescatori e bagnanti, quando il fiume era balneabile. Affacciati su quell’ ansa del Tevere rilucente al sole e con i suoi raggi in piena faccia, abbiamo ordinato una Peroni pensando a Pierpaolo, che cenò con un piatto di spaghetti aglio e olio, del pollo arrosto e una banana.
“Mangiava senza sale”, ci ha detto il proprietario. “A quei tempi fu mio padre a servire Pier Paolo Pasolini. Era cliente abituale”. È arrivato il nostro pranzo a base di carbonara, una bruschetta aglio, olio e sale, una scaloppa al marsala e le patate arrosto. Accanto ci hanno messo anche due filetti di baccalà fritti. Per finire una fetta di crostata alla marmellata. Mangiando ci sono tornati in mente quei tragici momenti. “Secondo te”, chiediamo al proprietario, “Pelosi sapeva che avrebbe portato Pasolini a morire?”. Lui ci risponde: “No, penso che Pelosi ebbe solo il compito di portarlo all'idroscalo. Ma non sapeva cosa sarebbe accaduto e non fu lui ad ammazzarlo. Era un ragazzetto magro e giovane. Nessuno gli avrebbe creduto neanche se lo avesse detto. Nessuno gli diede fastidio”. Noi cerchiamo di intravedere in questa istantanea odierna le tracce del passato, immaginiamo i registi seduti in questa terrazza, che Moravia vide rimessa a nuovo e se ne lamentò perché avrebbe dovuto restare intatta. Pensiamo a cosa ci trovasse Pier Paolo in questa vecchia trattoria rustica romana ove era di casa e a quanto oggi tutto sia diverso, in questa zona un tempo incantevole, nella sua grezza semplicità. Ogni cambiamento, seppure in meglio, comporta una perdita e nella fattispecie a venire meno a causa del progresso e dell’omologazione che ne consegue, è l’innocenza incorrotta della periferia romana, sosteneva Pasolini nel Pianto della scavatrice, che dilania la “stupenda e misera città” che era Roma. Insieme a quella semplicità verace andata perduta ci chiediamo spesso dove siano andati a finire i sapori della cucina romanesca di un tempo. Chissà se oggi Pasolini pranzando qui apprezzerebbe ancora la cucina del Biondo Tevere, questa mappazza di carbonara insipida, al sapore di uovo predominante sul guanciale, decisamente fuori dagli standard di perfezione sbandierati dai romani doc, di questi filetti di baccalà tristemente pallidi e sciapi, dalla pastella gommosa. Probabilmente anche la qualità delle materie prime e la cura con cui sono preparate sono andate perdute per sempre insieme alla veracità di Roma, come annunciava Pasolini. Noi a questa storica trattoria diamo 2 al cibo, 4 al servizio, 4 alla cortesia e 5 alla bella location, che nessuno mai si sogni di toccare, per carità.