Siamo andati a mangiare al nuovo ristorante indiano e vegetariano della catena Saravanaa Bhavan, popolare in tutto il mondo, da poco aperto anche a Roma in zona Termini. Tra salse iper piccanti, piatti a base di carboidrati un po’ monotoni e noodles ai funghi indigesti, siamo sicuri sia questo il cibo orientale di cui sentiamo la mancanza? Noi lo abbiamo provato e...
La notizia dell'apertura di un ristorante indiano vegetariano è stata accolta con giubilo da parte della cittadinanza romana. Ma d’altra parte, che Roma di base prediliga la sua rustica cucina a base di primi della tradizione si sa. Il romano basic è infatti restio ad aprire le sue vedute al di fuori del guanciale soffritto. Da noi la Sora Lella è la vestale delle preparazioni popolari: ovunque il grasso di suino eccelle e sfrigola nella padella, mentre la pila bolle. E via di narrazione di nonne alla finestra, di notti di campioni e bombe delle sei che non fanno male. A Roma il concepire alternative alla cacio e pepe e agli altri tre alfieri della santa quartina pastasciuttara, è quanto di più difficile ci sia. Quindi diciamo che l'etnico ha vita, dura e nemmeno pullula tra le varie proposte dei ristoranti, in questo anarchico, caotico, sovraffollato e arretrato satellite allo sbando che è Roma nostra. Se qui un padrone c'è, è la voglia di non fare un cazzo ed eccellere. Possibilmente in maniera coatta. La nostra multietnicità si risolve in comunità di persone per lo più in povertà e ai margini, che delinquono o sopravvivono in degrado, sfruttati per la maggior parte delle volte nelle cucine dei ristoranti sedicenti romaneschi, o dalle mafie, tirando pallette di silicone su una tavoletta sorretta da una cassetta della frutta nei pressi dei monumenti più famosi, ai fini di venderle a qualche pollo di passaggio. La speranza che Roma abbia da offrire una dignità – e non un’elemosina - agli stranieri che vogliano aprire sul territorio un ristorante tipico del loro paese, al pari di Londra o Milano, è tristemente remota. Appena saputa la novità dell’apertura di un ristorante della catena indiana Saravanaa Bhavan, presente in tutto il mondo, nella reietta Roma, quindi, ci siamo rallegrati parecchio. A noi piacerebbe uscire ed avere la scelta tra mille variegate offerte culinarie internazionali, piuttosto che rassegnarci tra miliardi di giapponesi, un messicano mediocre che se la tira pure e il solito Giggi er Troione che fa l’abbacchio alla scottadito del Bangladesh. Perché se andassimo in Bangladesh vorremmo che i samosa ce li preparasse Karim e non il succitato Giggi.
Dopo questa simpatica disamina, possiamo dire che abbiamo imboccato via del Volturno nei pressi della stazione Termini, alle spalle delle Terme di Diocleziano, strada celebre nel mondo, un tempo, perché ospitava appunto il Volturno, noto locale erotico per zozzoni vogliosi che lo citavano nei discorsi con l'occhio arrapato. A lungo è stato anche un teatro di avanspettacolo e varietà. Al civico 37 oggi non vi è più nulla se non l'abbandono, da quando il cinema entrò nel circuito di Cecchi Gori per poi fallire con tutta la baracca. Garruli e affamati come galline ovaiole abbiamo varcato l'entrata accolti da due affabili abitanti del Bharat. Il locale è fresco di pacca e in allegri colori ocra e ottanio, a metà tra un fast food e un ristorante. Solerti abbiamo avuto sottomano le svariate proposte di menù combo a circa 16 euro l'uno. Il cibo è di ardua comprensione sui menù e ordinare non è facile. Si rischia di scegliere piatti identici perché la base principale è sempre il carboidrato accompagnato da verdure e salse, visto che la cucina – come ci hanno spiegato - è vegetariana del nord e del sud del continente. E infatti abbiamo sbagliato. Buttando al secchio la filosofia del cibo ayurvedico, delicato equilibrio dei 3 Dosha – Vata, Pitta e Kapha, abbiamo ordinato dei vadi e degli igly con il sambar, ovvero ciambelle di lenticchie e crepes sottili, che sono arrivati sui tipici piatti di metallo con dei legumi piccanti come le spogliarelliste del Volturno possedute dal demonio. Poi noodles con funghi e verdure e mal ce ne incolse, viste le sinistre conseguenze che per decenza non racconteremo. Abbiamo unito un naan (pane) ad altro pane, disertando i piatti di verdure. Quindi si, un po' è colpa nostra, ce la siamo cercata, colpa del menù più incasinato della rete Atac romana. La boisson consisteva in un lassi al mango, ottimo. Al terzo pezzo di pane intinto nelle salse eravamo stufi, sorvegliati da quattro segugi del posto, appostati nei pressi. Con il palato in fiamme e gonfi di amido, abbiamo piantato lì gli intingoli e siamo usciti in strada. Peccato che il Volturno ormai appartenga al glorioso passato, perché avremmo chiuso la serata in bellezza. 64 euro per due coperti, per gonfiarci di pane declinato in svariate maniere e morire male con i noodles ai funghi indigesti. Dunque, cibo voto 2, cortesia 4, servizio 4 e location 4. Auspicheremmo tanti locali etnici a Roma e di qualità, come una vera capitale europea. Ma qui non torneremo. E comunque, come ci ha esortato in seguito l’amico Marco il bidello, sfegatato tifoso della AsRoma, “ma chi to fa fa de annà a sti posti? N’era mejo na carbonara, na cacio e pepe, na amatriciana, na gricia…”. È inutile. Non ce la faremo mai.