Nel paniere Istat del Paese è entrato l'All you can eat. E adesso come facciamo? Se nel paniere c'è l'All you can eat, le uova dove le mettiamo? Se un tempo c’era poco e ce lo facevamo bastare, per soddisfare le esigenze della popolazione, oggi queste ultime sono cambiate prevedendo benefit maggiori. Un excursus del secolo breve evidenzia che nel 1928, anno di nascita del paniere, questo annoverava cinquantanove prodotti, per lo più alimentari. In un’Italia ancora per lo più agreste, la voce per la spesa della legna da ardere primeggiò sino al 1975, soppiantata nel 1977 dalle merendine e dalla Coca-cola, secondo il mutare delle spese della vita quotidiana. Oggi i prodotti sono 1772 e il consumo di alcuni generi alimentari è diventato abitudine, così come altre attività. Ora che Francesco Totti ha conosciuto la sua nuova fiamma su un campo da padel abbiamo acquisito un’informazione sulle nuove tendenze. L'amante non si trova più al corso di balli caraibici come negli anni Novanta o nella terapia di gruppo, ma a padel. Al ristorante cinese preferiamo il giapponese- e per questo i cinesi si sono attrezzati, con il loro essere efficientemente multitasking, riciclandosi come giapponesi- ma siccome siamo poveri in canna, preferiamo la formula All you can eat, dove paghi poco e “te sfonni”, direbbe il classico coatto romano. Insomma, l’iper-consumismo predilige la quantità dell'offerta del prodotto a scapito della qualità dello stesso. Tradotto, l'All you can eat trattasi di ignobile mangiatoia ove si recano preferibilmente le masse ormai sulla soglia della povertà, che pensano di pagare poco con la prospettiva di mangiare tanto, leggasi "attripparsi fino a scoppiare". Eppure, l’All you can eat va alla grande. Il fatto è che pagare trenta euro per cibo scadente comprato in stock da allevamenti ittici, si rivela essere un'illusione in fin dei conti anche dispendiosa. In un’epoca, tra l’altro, in cui il veganesimo e il salutismo la fanno da padrone, il successo degli All you can eat appare bizzarro. Certo, in una ottica di depauperamento culturale generale come quello odierno, riflettendo, tanto bizzarro non è. Ma se volessimo andare oltre, oseremmo obiettare che anche il veganesimo praticato dai più, a base di prodotti processati e in vendita in store a basso costo come Lidl, Eurospin e affini, è quanto di più lontano ci sia dal salutismo. Noi di MOW, perduti in un dedalo di All you can eat pacchiani come uno studio di Avanti un altro e finti come il set cinematografico di Barbie, ma troppo pavidi per andare da Cinapoli, in zona Primavalle – una Via Trionfale che non ce l’ha fatta, con buona pace degli autoctoni di Primavalle che ci rivolgeranno un cordiale ‘anfame!’ – abbiamo tentato di disertare i ristoranti più turpi, memori di invettive vibranti da parte delle anse intestinali fulminate, scegliendo quello che ricordavamo più dignitoso.
Il locale in zona Tiburtina vanta comunque un notevole fricandò di “cucina italiana, asiatica, brasiliana, pizza, fejolada e sushi, accompagnati da sakè”. L'esperienza ha inizio in fila con trenta sbarbine gnocche in tiro dai capelli setosi e manicure fresca di pacca, con relativi accompagnatori. Lì, sotto ad alberi di sakura sintetici e “maneki neko” (i gatti portafortuna) a statura umana che ci salutano, ci pigiamo a un tavolo di tek dotato di un tablet per gli ordini, strillando tra la folla la nostra personale lista di nipponiche primizie. Inutile fare i rimastoni dicendo che negli anni Ottanta Roma ignorasse persino l'esistenza del lemma sushi. Per inciso, gli avocado e i manghi appaiono nel paniere Istat italiano solo nel 2018. Oggi, mentre ordiniamo maki come se con quelli ci avessero svezzati sembriamo il presidente Giuseppe Conte quando elencava i giorni di chiusura durante i decreti anti-pandemia: “dieci, undici, tredici, e ancora venti, ventuno…”. La grande abbuffata ha inizio. Una trionfante sagra della salmonella in agrodolce ci travolge, ci facciamo sedurre da tre pantagrueliche barche di uramaki alla cipolla, mango e riso nero, in un testa a testa con gli osomaki di salmone fritto, fragole e mayo piccante. Una vera gozzoviglia di sapori etnici dal retrogusto di olii vegetali e wasabi. Tanto che ci frega, magnamo quanto ci pare. E giù alghe di oscura provenienza e spiedini di gamberetti all'acido fenico, tonni scottati e salmoni teriyaki. Il palato è qualcosa che in tempi di povertà è ormai obsoleto e sopravvalutato. Bando a discorsi sulla diseducazione del gusto e caduta verticale degli standard qualitativi culinari, l'importante a Roma è abbuffarsi a poco prezzo. Salvo la clientela che ancora ha reminiscenze di concetto di dozzinale e attua una scelta di qualità - perché può anche permetterselo- e che diserta queste mense scadenti nemmeno troppo economiche, tutti scelgono la formula All you can eat, ostentando sui social una certa coatta spavalderia da scialo esibizionistico. Per trenta euro nessuno infratta neanche più ciò che lascia nel tovagliolo, per buttarlo al primo cestino, di nascosto dal cinese. Ormai spazzoliamo tutto sino all’ultimo boccone di katsudon ed ebbri di effluvi al pesce burro del Verano arraffiamo il cookie della fortuna del Sol Levante tiburtino e leviamo le tende. Il nostro viaggio metropolitano nel Giappone più easy e indigesto termina alla stazione di Ponte Mammolo. “Arigato gozaimasu”. Anzi, bella regà, se sentimo domani.