Macché moda. Cucinare con le piante selvatiche non è un nuovo trend ma affonda le radici nella storia della nostra alimentazione delle nostre campagne. La novità è che oggi i valori di questa “gastronomia selvatica” sembrano essere anche la risposta giusta a un fenomeno di stretta attualità: lo spreco alimentare. Calendula, portulaca, carciofi selvatici. C’è chi lo chiama wild food, ma per Sarah Bugiada, siciliana con una lunga esperienza ai fornelli sono affettuosamente “erbacce” e danno il nome al suo ristorante: “Erbacce Lab”, appunto. Siamo a Bracciano tra vicoli di lago a un passo dalla Capitale. Il locale si trova di fronte al Duomo e ad accoglierci c’è il braccio destro di Sarah, Giovanna: parrucchiera nella vita precedente (anche se, vedendola all’opera qui, nessuno ci crede) e una passione per le erbe selvatiche scoperta grazie a questo progetto. Pochi coperti, la cucina affacciata sulla sala per non tagliare mai il filo diretto con gli ospiti. L’aria è quella di casa, ma leggendo il menù del giorno sulla lavagna ti rendi subito conto della complessità della filosofia che ci sta dietro. Doverosa parentesi: questo non è un pezzo di giornalismo enogastronomico, ma la fotografia di un’esperienza e di un luogo con le persone che lo animano. Dicevamo, questa cucina sembra sfuggire ad ogni etichetta: non è solo vegetariana o vegana, non è solo gourmet; non è solo tradizione e non è solo innovazione. Di sicuro è generosa e spontanea come le sue erbe e come la sua cuoca. “Raccolgo piante selvatiche da quando ero bambina”, esordisce Sarah. “Si andava per fagiolini e in mezzo si trovava la borragine; si piantavano pomodori e ai bordi delle strade c’era il finocchietto selvatico. Zii e cugini erano contadini e tutti i prodotti invenduti perché esteticamente brutti li usavamo in casa perché erano buoni. È lì che ho imparato l’importanza di evitare scarti e sprechi, valorizzando tutto”. Dopo varie esperienze oggi Sarah ha raggiunto il suo obiettivo: impersonare una cucina di territorio. “Che per me significa fare rete con tante piccole realtà produttive, con cui si condivide la stessa filosofia di lavoro, ossia produrre quello che c’è, quando c’è. Senza massificare i prodotti. Oggi sono in grado di utilizzare in cucina almeno una cinquantina di piante selvatiche. Ovviamente occorre essere sempre sicuri al 100% che si possano impiegare e sapere come. Inoltre, nella raccolta privilegiamo sempre le piante più infestanti per pesare il meno possibile sull’ecosistema. Si usa solo quello che serve”. Prendiamo pane ed erbe, ad esempio. Qui si fanno le polpettine: spallinate con lo stesso utensile che si usa per il gelato, cotte al forno e servite con condimenti che cambiano sempre. “Faccio il pane tutti i giorni con una lievitazione di 24 ore. Con quello che avanza e non esce dalla cucina, oltre alle polpette faccio tortini, pangrattato, crostini. E se ne rimane di quello che è stato servito chiedo sempre ai nostri ospiti se vogliono portarlo a casa, altrimenti lo regalo a chi ha animali”. C’è chi vuole rendere la doggy bag obbligatoria. “Io lo avevo scritto anche nel progetto del ristorante, bisogna fare sempre di più, si spreca troppo cibo”.
Ma torniamo alle “erbacce”, qual è il loro punto di forza? “Crescono esattamente dove e quando devono crescere. Se mangi selvatico comprendi meglio il passo della natura e impari quando mangiare anche i prodotti coltivati”, dice Sarah. Sulla nostra tavola intanto continuano ad arrivare piatti: tonno di pollo, zucchine ripiene di erbe spontanee o servite crude con spezie selvatiche, misticanza gratinata, stracotto di abbacchio in terrina con yogurt e prugne spontanee. Come si può notare, Erbacce non significa senza carne, anzi. Tuttavia, “abbiamo una miriade di ospiti vegani e vegetariani, che possono ordinare tante ricette già concepite per loro o riadattate grazie al fatto che montiamo ogni piatto al momento”. Attenzione però a usare l’espressione “gourmet”. “Varie tecniche lo sono, ma il risultato è una cucina che fa rivivere i piatti con cui sono cresciuta. Certo, di sperimentazione ne facciamo tanta, come le salse umami con l’acqua di cottura delle verdure ristrette, dolcificata e acidificata”. E spesso si va anche oltre i confini nazionali con ramen, piatti di cucina messicana, spring roll e salse agrodolci. Sempre in chiave antispreco, ci sono le tortillas di farinaccio, scarto di produzione della farina. Sarah collabora anche alla preparazione di conserve ottenute da piante spontanee. “Sono piccolissime produzioni, non arriviamo a 5mila vasetti l’anno. Ci sono ad esempio le more, la portulaca, il pesto di senape selvatica. Le tecniche che usiamo ci consentono di avere un risultato quanto più vicino possibile a un prodotto fresco, per non perdere il sapore del selvatico”. Un progetto che va oltre il cibo. “Voglio trasmettere - dice Sarah - uno stile e una filosofia di vita. Erbacce è la rappresentazione completa di me”. Ed è questa la logica anche degli “eventi di connessione” organizzati qui con produttori, altri cuochi, artigiani, scrittori e artisti. Ma è mai venuto a mangiare qualcuno che non aveva ben capito dove si trovava? “Sì, gli abbiamo raccontato la nostra cucina e ha preso i piatti più semplici, ossia il risotto alle erbe selvatiche e l’hamburger con misticanza, primo sale e maionese fatta in casa”. E come è andata? “È andato via felice”.