È mattina, Roma è baciata dal sole, abbiamo la giornata libera e nessuno ci corre dietro. Il presagio del maritozzo con la panna inzuppato nel caffè bollente o nel cappuccio cremoso si fa strada tipo visione di San Pietro sulla traversa dopo una settimana di lavoro e incazzature con chiunque, e questo basta e avanza per scendere di corsa al bar con un friccico ner còre. Se poi troviamo pure un tavolino al sole abbiamo svoltato. Il tempo di adocchiare il panciuto panino spaccato e gonfio di panna per ringraziare Dio, i Santi e tutti gli angeli in colonna, spalancando le fauci per divorare la bomba made in heaven con il naso imbiancato e gli occhi rivoltati a mo’ di Santa Teresa in estasi e in due morsi di sgangherato godimento terminiamo il maritozzo che ci migliora la vita fino a sera. Il maritozzo è l’incarnazione della romanitas, del “famosela pià bene”, del “guarda che t'ha comprato oggi nonna?”, delle notti estive dopo le scorazzate in macchina fino a tardi e delle soste davanti ai bar ancora aperti.
È ardua impresa raccontare a un forestiero quella morbidezza della amata pagnottella lucidata di tuorlo che insieme alla dolcezza della panna appena montata esplode in una armonia di sapori quasi sentimentale, che si mischia con l’eros e con l’innocenza e tutto insieme diventa felicità. Ecco, più o meno è di questo che deve sapere un vero maritozzo con la panna; quanto di più lontano vi sia dalla pesantezza. Il maritozzo è la leggerezza del vivere, del campare ogni giorno nonostante le ambasce quotidiane, fottendosene con una risata dissacrante. Del maritozzo si priva chi è a dieta e infatti sta sempre incazzato, mortificato da rigidi schemi punitivi forieri del proliferare di studi di psicoterapia in rigoglio. La gente non mangia più maritozzi in nome dell’instagrammabilità, smarrendo quella tradizione già soffocata da smanie di ricerca di innovazione degli ultimi decenni da parte dei cuochi nazionali. Ma adesso c’è nell’aria una timida inversione di tendenza a Roma, che sta rilanciando i suoi piatti identitari, tra i quali il maritozzo, leggendaria creazione della quale ribadisce la maternità. Ed era ora, vista l’assurda latitanza nei bar.
Oggi il bresciano Iginio Massari, fondatore degli Ambasciatori Pasticceri dell’Eccellenza Italiana lo propone nella sua nuova boutique di alta pasticceria nella Galleria dedicata ad Albertone (Sordi, n.d.a., già Galleria Colonna) reduce dell'ennesima chiusura per restauro. L’alta pasticceria di Massari va a colmare un vuoto – è il caso di dirlo, visto il deserto dei Tartari che alberga nella povera galleria romana – che definiremo siderale, data la penuria di grandi firme nel panorama della ristorazione in città. Noi abbiamo attraversato Monte Citorio verso Palazzo Chigi per poi imboccare l’accesso liberty della Galleria e prendere d’assalto i dolci di Massari. Il locale sbrilluccica di performance meneghina e classe e, nonostante l'affollamento, tutto si svolge in una inusitata serenità, senza un ahò, un non so, un ambè. I Bussolà sono lustri come ginocchi disposti con geometrica ossessione dietro la vetrina e ci incutono un po’ di soggezione, così emotivamente altro da noi. Sembrano dirci “villici, il romanesco non lo capiamo, parlate italiano e guardate come siete vestiti”, accanto ad una meno algida e democratica sbrisolona.
Le gelatine alla frutta, pardon, Persicate, deliziose nel loro scrigno verde menta, le sentiamo sciogliersi in bocca evocandoci ataviche memorie di bisnonne che ci accoglievano sulle sottane, attraverso le quali avvertivamo le dure, segaligne ginocchia sotto di noi infanti. Buone, nella loro sempiterna decadenza, ma vorremmo qualcosa di più scorretto e meno gozzaniano se possibile. Finalmente posiamo gli occhi sul maritozzo, uno dei motivi per raggiungere Roma, adocchiare una panchina di marmo ove sedersi e morderlo con voluttuosa oscenità, stracolmo di panna. Questo di Iginio, per sei euro, noi ce lo facciamo incartare per mangiarlo in relax fuori di qui. Per ora degustiamo la colomba con lo zabaione dal piatto autografato, al prezzo di dieci euro le tre fette, che si rivela composta, discreta, severa nel gusto privo della primaverile presenza delle mandorle, molto nordica nella sua disciplinata delicatezza, insomma piena di luoghi comuni e troppo simile ad un ciambellone con i canditi. La presenza dello zabaione nulla ha potuto con noi, avvezzi a ben altro, uno su tutti le pacchiane, scostumate pastarelle del Tuscolano, che spesso ci hanno consolato le domeniche.
Il maritozzo ha confermato l’amaro disappunto nel momento in cui lo abbiamo aggredito, trovandoci al suo interno, imboscato nella panna, un grosso strato di crema pasticcera. Maestro, qui trattasi di affronto, violare in siffatta guisa l’impalpabilità della panna turbando l’equilibrio perfetto del connubio armonioso del maritozzo è quasi immorale, ci permetta. Non scherziamo con i sentimenti. Se il motto di Massari “ricerca la perfezione e non smettere mai”, nel caso del maritozzo la perfezione è raggiunta e inviolabile da secoli e continuare a cercare è, se non inutile, dannoso. Non si vola, ragazzi, spiace. Noi al negozio nuovo di pacca - che alza decisamente il livello, uscendo dal consueto, per i romani - diamo 5 per la location, 5 per la cortesia, 4 al servizio 4 al prezzo e 4 al maritozzo, che continueremo a mangiare da Regoli in via dello Statuto come da tradizione o dar Maritozzaro di via Ettore Rolli la notte. E l’omo – e la donna – campano. E ora, se non avete già un maritozzo originale doc in mano, cercatevi su Google l’Ode al Maritozzo di Ignazio Sifone, che se lo spizzava con ardore e anche la leggenda che vuole che il principe dei dolci de Roma – cugino del ‘Quaresimale’ - si chiami così per via dei futuri mariti che lo donavano alle fidanzate. Non fiori, ma maritozzi con la panna, maschi!