L'Italia è famosa a livello internazionale per la sua cucina, ma su questo saremmo di parte, per cui non vale la pena di aggiungere nulla. Si può dire però che parlare di cucina italiana è ancora riduttivo, perché siamo forse l'unico paese in cui ogni città o paesello ha le sue ricette tipiche, uniche, differenziate dal resto degli altri paesi, con un'identità forte. Tra queste ricette, ce ne sono alcune con ingredienti che, a sapere bene cosa sono, ci si domanda poi perché proviamo ripulsione quando, a Pechino Express, vediamo i concorrenti che mangiano le tartarughe, gli occhi, le cavallette o i serpenti. Nel fritto misto piemontese ci sono le cervella di vitello. Sempre in Piemonte, si mangiano le rane fritte. Poi c'è il cervello fritto alla fiorentina, gli stigghiola palermitani, fatti di interiora di agnello, il formaggio sardo con i vermi, i passerotti nello spiedo bresciano, e l'elenco rischia di essere infinito, se ci mettiamo tutte le ricette a base di interiora. Oggi ci concentriamo su un piatto della capitale, il cui nome è senz'altro conosciuto in tutta Italia: la pajata. Il piatto compare anche in un film che ha fatto epoca: il Marchese del Grillo di Monicelli, con Alberto Sordi. In una scena c'è il Marchese, ovvero Alberto Sordi, che ordina all'amica Olivia, interpretata da Caroline Berg, proprio un piatto di rigatoni con la pajata. Lei non l'ha mai mangiata, e chiede informazioni. Prima mangiala, poi ti spiego, le risponde lui.
E questa? E questa è merda, è merda de vitella, confessa il Marchese del Grillo all'amica sprovveduta, che nel frattempo aveva già mangiato tutto con gran piacere. Se vogliamo teorizzarci sopra, questo spiega che i pregiudizi, spesso e volentieri, ci precludono l'accesso al piacere, e in cucina gli esempi sono tanti. Spesso ci si priva di assaggiare un ingrediente perché ci fa schifo a priori, quando sarebbe sempre meglio assaggiare tutto. Ma senza entrare in discorsi troppo complicati, c'è o non c'è la merda dei vitelli nella pajata? Facciamocelo spiegare da uno che se intende: Giorgio Barchiesi detto Giorgione, lo chef in onda dal 2012 su Gambero Rosso e titolare della pagina Instagram Giorgione orto e cucina. Intervistato da un altro romanaccio, Danilo da Fiumicino, voce di Radio Deejay col Trio Medusa e fenomeno social, Giorgione ha spiegato per filo e per segno che cosa sia davvero, la pajata. "La pajata è una delle più grosse sóle commerciali dell'ultimo cinquantennio. Ve lo dico da ex veterinario e da allevatore di bestiame", dice Giorgione, "la pajata è un pezzo di intestino che si chiama digiuno, la cui lunghezza può variare da un metro a un metro e mezzo, a seconda della bestia. Parliamo di bovino adulto, e non di vitello. Dentro a questo pezzetto di intestino c'è il chimo, che è la secrezione prodotta dall'animale. Non è il latte. Si chiama pajata perché in quel pezzo è facile trovare dei pezzettini di paglia, non completamente digerita dal bovino. Ma prima e dopo c'è la merda. Quindi per vendere tanta pajata cosa si fa?", domanda Giorgione.
"Si macella l'animale", prosegue, "si prende un bel rubinetto con l'acqua calda, si lava il budello, ci si mette dentro il latte, e il budello è ancora caldo quindi caglia internamente. Quindi quando c'è la signora che poi mi dice ma sa, c'era un po' quell'amaretto di fondo, le rispondo: è merda, signò". Dunque, la merda c'è, ed è l'ingrediente segreto del piatto. Il chimo, infatti, è il composto che si forma mettendo insieme il cibo e i succhi gastrici. Questo è. Tant'è che in seguito al morbo della mucca pazza, un po' di anni fa, la pajata rientrò tra i cibi messi in lista nera dall'UE, ed è tornata nei menù dei ristoranti soltanto dal 2016. Fortunatamente, perché merda o non merda, si tratta di un piatto storico della tradizione, risalente alla cucina ebraico-romana. Un piatto antichissimo e popolare, principalmente in virtù del fatto che le interiora erano sicuramente un taglio di carne più economico, e destinato non di certo a un pubblico borghese o aristocratico. La pajata, come la conosciamo oggi, ha le sue origini al , il popolare quartiere di Roma dove, intorno al mattatoio, si radunavano i cosiddetti scortichini, gli operai addetti alla macellazione. Gli scortichini, detti anche vaccinari, non venivano pagati in contanti, ma con il cosiddetto "quinto quarto", ovvero con gli scarti di lavorazione, tra cui c'era anche la pajata. Pensateci, la prossima volta che direte al vostro capo che avete uno stipendio di merda. Anche se, in effetti, la pajata almeno è buona, mentre il vostro stipendio no.