Dar Filettaro a Santa Barbara, a cui dovremmo dedicare un busto marmoreo al merito, è un buco stretto e lungo dove si frigge pesce e che apre soltanto al tramonto, incastonato in una piazzetta romantica che se la guardi te viè da piagne, tanto è piccola e bella, con una chiesetta che pare finta. Passeggiando per via dei Giubbonari, presi per i casi nostri, un po’ pensierosi e pervasi da strani sentimenti che la vita ci da, capita di sentire l’eco delle voci di tutti quelli che in questa via ci sono passati e di chiedersi se per caso c’abbiamo le traveggole o ce siamo ‘mbriacati, perché è vero che la strada è sempre affollata, ma siamo sicuri che questo vociare proviene proprio da questi sampietrini e dal perimetro di questa via, che un tempo lontanissimo segnava il profilo di un enorme teatro in muratura, il più grande del mondo. Preparate i fazzoletti e appicciate un disco la cui colonna sonora possa favorire questo momento di raccoglimento e commozione, perché questa è la storia di un pezzo di Roma concentrata letteralmente in questo quadrilatero di territorio, tra Campo de Fiori e l'area sacra di Torre Argentina. Noi suggeriamo un tipico stornello romano profondo e toccante come Daje de tacco e daje de punta; in mancanza, scegliete qualcosa che vi sciolga il pianto e vi inebri l'anima a dovere perché l'occasione è giusta. Per prima cosa si informano i lettori che non si è stati a Roma se non si è addentato un filetto di baccalà fritto come Dio comanda in un posto che meriti, in questo periodo storico sciagurato in cui ve n’è preoccupante carenza e come per quanto riguarda i cornettari notturni, dovremmo davvero lanciare una solenne invettiva a Giorgia Meloni, che la pianti di occuparsi di cose futili e ci restituisca il congruo capitale di cibo da strada romanesco di una volta, visto che non si trova più genuino e abbondante. Questa pratica e sublime specialità giudaico-romanesca che siamo andati a mangiare stavolta si riassume in un pezzo di merluzzo salato, messo in ammollo in acqua corrente almeno un giorno per dissalarlo, avvolto poi in pastella - che determina a tutti gli effetti gusto e qualità - servito bollente, da suggere avidamente scottandosi le mani e il palato. Ciò ci induce a pensare solo una cosa: aboliamo l’ardesia dai ristoranti, i barattoli della ‘Quattro stagioni’ destinati a contenere la confettura, con la guarnizione di gomma e il coperchio, dove va di moda servire il tiramisù – che peste vi colga! - e l’olio della Comunità Europea rimboccato nella bottiglia dell’olio Dop. E viva le friggitorie ignoranti col pentolone a vista, i filetti di baccalà, i supplì di una volta, la trippa, la coda, la pajata, gli involtini e tutti i piatti romani ormai scarsi e trasandati e affidati a mani sacrileghe…
Dicevamo, giovedì gnocchi. venerdì baccalà e ceci, sabato trippa. Questo è il mantra e chi non c'è ciccia. Stretta quindi tra il luogo dove avvennero le idi di marzo e il tempio di Venere Vincitrice affacciato in Campo dei Fiori, la chiesa di Santa Barbara dei Librari sorge sulle rovine del teatro voluto dal console Gneo Pompeo, acerrimo nemico di Cesare. Si dice che Cesare fu pugnalato proprio nella Curia di Pompeo – il famigerato locus sceleratus - cadendo ai piedi della grande statua del suo rivale, ritrovata nelle cantine di due umili casupole di via dei Leutari, nel cuore dell’ex teatro del 55 a.C. e ora esposta in Palazzo Spada. Tra la chiesa, il teatro di Pompeo con lo splendido Passetto del Biscione, la Curia, la pizza di Roscioli e i filetti del filettaro, giureremmo che un concentrato di tal meraviglia non l'abbiate mai concepito. Ed è proprio qui, calpestando questi sacri suoli che vi accorgerete che, guardando a destra in largo dei Librari, ove un uscio reca la dicitura ‘filetti di baccalà’, comincerà a venirvi dar còre un motivetto che salirà sulle labbra fino a farvi fischiettare sguaiatamente ‘grazie Roma che ci fai piangere abbracciati ancora’. È lì che tra facce di assassini e gente di strada vi ustionerete finalmente le dita con i filetti di baccalà nella carta da pane e sfiammerete l'ugola con una chiara alla spina e due puntarelle scrocchiarelle aglio e alici - dicesi puntarelle le cime spigate della cicoria, o catalogna, opportunamente tagliate e arricciate - capate dalle cicoriare della mattina ormai scafatissime e coatte, al limite della capocciata con la quale potrebbero ‘partirvi’ nella vicina Campo dei Fiori, sotto lo sguardo del mentore del libero pensiero Giordano Bruno, che quivi arse sulla pira. È qui che vi sentirete orgogliosi d'esse nati a Roma - perché c'è rimasto solo da attaccasse ar baccalà ormai - forti de sta storia sotto ai piedi, che vide nascere i destini del mondo. Giusto sotto ai piedi, perché in quanto a futuro... Lasciamo perdere. Noi i filetti li abbiamo ordinati al volo con due zucchine fritte dorate, due Peroni appunto e il resto, che è arrivato in du minuti sulla tovaglia di carta, un cestino di casareccio e un par di tovagliolini, seduti ai tavolini della saletta piastrellata con le scene di Roma vecchia sul muro, li da sempre.
Il baccalà è una dichiarazione di appartenenza, a consolare e ricordare che anche se invasa di barbari, peccatori e pirati di ventura, sfregiata e oltraggiata, casa è casa e per cento volte che ce ne vorremmo andare, una restiamo e la difendiamo. Le puntarelle a regola d’arte nel piatto di coccio aglio e alici parlano di nonna e d’infanzia, di vecchie col culo all’aria e il coltello in mano intente a raccogliere cicoria sul monte assolato della campagna romana. Tutto è rimasto com’era cent’anni fa, pure il servizio spiccio e ignorante. “Che storia c’ha sto posto?” – chiediamo – “Boh? E chi lo sa”. Forse sta qua da quando c’era Pompeo con il triumvirato, che costruì il teatro che calpestiamo, del quale resistono le basi sotto al ristorante Pancrazio e l’hotel Lunetta qui dietro, con la cavea in via di Grottapinta. Ci auguriamo che er filettaro di Santa Barbara resista a tutti i crolli, le sciagure, derive e declini che investono questa città, da quando vide la luce e ai quali è sempre sopravvissuta e che qui si continui a friggere baccalà croccante e dorato, perché davvero è l’unico esercizio superstite e verace a ricordo di quelle hostarie popolari di cui Roma traboccava, ormai scomparse. Il voto al cibo è 5, bone le puntarelle, bono il baccalà, tutto; 5 la cortesia ruspante, 5 il servizio, 5 la location e 4 il prezzo. Ci torneremo? Intanto quando usciamo chiudiamo la porta, perché ‘ahòò ma che abbiti ar Colosseo?’ Ci urlano. Ma ce tornamo sì, è tutta la vita che ce tornamo!