“Io buco il video? Ma io buco tu’ sorella”. Esiste una versione più vera del faccione già vero, genuino e dop al mille per mille di Giorgione, al secolo Giorgio Barchiesi, artigiano della cucina reso popolarissimo da Gambero Rosso Channel su Sky, nonché personaggio di un certo – come dire - peso su Instagram e TikTok? In questa intervista, forse sì. Ma in realtà no, perché per conoscere meglio un oste, basta andare a trovarlo in osteria (che ci guardiamo dal nominare, perché lui, di auto-marchette, nei suoi programmi non ne fa, e perciò non lo faremo neanche noi). Dimenticarsi l’aura piaciona e precisina degli chef televisivi che spaccano la punta d’aglio in quattro, o sdottoreggiano sulla fogliolina dell’impiattamento: qui c’è un signore di 65 anni, già studente di veterinaria, di famiglia romana benestante, che ha imparato a mangiare dalle tate che facevano la pasta a mano. Fumatore senza sensi di colpa (60 paglie al dì), appassionato di Tex Willer, fra i numi tutelari ha una foto appesa di sua maestà Sora Lella. Sposato con una moglie deliziosamente sorniona (“Hai voluto la notorietà? E mo’ dai”, sotto coi selfie-ricordo), le star da micro-leccornia manco le vede. Nel senso che non gliene importa proprio niente. Gliene frega zero di passare, mettiamo, da anti-Cracco o anti-Bottura. Dieci anni fa, quasi per un caso fortuito, è stato scoperto dalla televisione, in cui ha intercettato un pubblico che gode a guardarlo preparare e poi a papparsi arrosti lardellati, spaghetti all’assassina, cinghiali fritti, hamburger guancialati ripieni di bufala, stinchi alla birra e innumerevoli altre pietanze di sapore sessualmente eccitante. Dopo essersi messo a posto anni fa con un bendaggio gastrico, ora vive beatamente divertendosi un mondo, dandosi a balletti improvvisati in cui dimostra una mirabile snodabilità, nei fuori onda sapientemente messi online dai social manager dell’emittente (lui di persona risponde ai followersssss, “un mondo a me lontano culturalmente, ma spocchiarlo è brutto”). Siamo quel che mangiamo, diceva del resto il filosofo.
Olio come se piovesse. Nutrirsi bene “fa star bene”, sottolinea più volte. Ma con tutto quell’olio, con i trigliceridi come la mettiamo? Per non parlare dei costi: ormai un prodotto di qualità è mediamente fuori dalla portata del ceto medio impoverito. “Sì, e poi però magari i soldi per il nutrizionista, o per comprare gli integratori in farmacia, quelli ce li hanno. Se uno capisce che spendendo di più per una cosa bbbuona la può mettere in vari piatti, si accorge che a fine mese spende meno. E poi, un buon lardo sarà meglio del glutammmato monossodico, no?”. Sembra che Giorgione riproponga l’old school delle nonne, in fondo. La sempiterna tradizione. “No, semplicemente mostro quel che piace a me. Una volta mi ha telefonata una signora toscana per insultarmi, sostenendo che avevo rovinato le tipiche ricette toscane. Ma io faccio il cazzo che mi pare. Tradizione, sì, ma anche innovazione. Una volta si poteva cucinare in un certo modo perché non c’era il gas, non si poteva rosolare o friggere”. Semplicità, nient’altro. “Le mie proposte sono quel che so fare io, e che come me sa fare qualunque altro”. Chissà che ne pensano i dietologi. Scatta l’aneddoto: “Ero in questo programma Rai, allora pesavo 186 chili. Prima del mio ingresso in studio, autorizzato da Sky fanno vedere questo spezzone di tot secondi in cui alla fine tiro fuori il midollo da uno stinco fatto con il vino e il ginepro, me lo ciuccio e dico ‘questo è colesterolo allo stato nascente’. Entro in scena e questo famoso nutrizionista con i capelli bianchi mi aggredisce. Ribatto che se serve andiamo in cucina e facciamo a sganassoni. Stiamo parlando di cucina, che so’ ‘sti strilli? Lo punzecchio dicendo che lui era al soldo dell’industria alimentare, e quello si fastidiava sempre di più. A un certo punto si fa prendere da una crisi di parossismo e mi fa: “E allora secondo lei cos’è una dieta?”. “Per me, è la pausa di riflessione fra un pasto e l’altro”, gli ho risposto. Parte un applauso non comandato. Va la pubblicità, lui fa alla conduttrice: o lui o io. Me ne sono andato, che stavo a fa’ lì?”.
Nevicata di pecorazzo. Il problema autentico e serio ruota intorno a un fattore eterno: il tempo. “Bisogna trovare il tempo, per comprare buon cibo e per cucinarlo bene. Una volta la tavola domenicale era il luogo dove si chiacchierava, nel mentre che si preparava il pranzo. Oggi le vedo, le mamme: lasciano che i bambini si strafoghino di merendine, perché ‘non hanno il tempo’ di prendere una fetta di pane e sfracagnarci sopra un pomodoro, o del burro e zucchero. Non raccontano più niente ai figli, non danno loro più la attenzioni che servono. Quando vengono da me, c’è la madre che mi dice che il figlioletto la trippa non la vuole, e lo rincorrono con la forchetta in mano. Con me, invece, la mangiano eccome. Il cibo non è trattativa, va solo raccontato”. E lui lo narra con gran florilegio di generosi dosi, intingoli napoleonici, spolverate atomiche e abbondanti imbottiture, il tutto annaffiato da un gergo tutto personale ad alto tasso di reazione salivare. E senza mai tirarsela: “Calma, signori: stiamo facendo da mangiare, non la rivoluzione francese. Certi programmi hanno rovinato gli istituti alberghieri”. Capito, chef stellati e impennacchiati? A proposito: ma il polemicone di Alessandro Borghese che si lagna perché non ci sono più gli aspiranti cuochi di una volta, che devono ammazzarsi di fatica e per tutto premio ringraziare, cos’è, una questione di datori di lavoro sfruttatori, o di ragazzotti lavativi? “È vero che c’è un momento di mercato particolare: per due anni i giovani sono stati dentro casa e ora vogliono andare a divertirsi. Ma è anche vero che per loro la situazione adesso è incasinatissima, un momentaccio, psicologicamente. Poi si sa che i grandi chef fanno così: vieni a lavorare per me, e perché te devo pagà? Io ho tre ragazzi magnifici in cucina, se faccio un contratto di formazione due anni, ma non è che uno dopo lo licenzio: il contratto finisce. Ti dico solo che da quando si è riaperto, a 130 coperti anziché 180, non ho preso una lira. E da me non c’è nero, non c’è il sóla che apre, chiude e riapre da un’altra parte”.
Molllto benisssimo. La cucina “è stata trasformata in denaro”. Per carità “l’industria è necessaria, se no non mangeremmo tutti quanti. Io so come funziona, sono stato consulente per dei supermercati. Però un olio a 3 euro sullo scaffale non può essere buono. Esistono 590 varietà di olive da olio, in Italia. Il fatto è che manca la cultura dell’alimentazione, che dovrebbe essere insegnata a scuola anziché essere lasciata al bombardamento mediatico. Si creano categorie come ‘gli anziani’, ‘i giovani’ solo per far acquistare, per produrre denaro”. L’economia divora tutto, è risaputo. A cominciare dall’immaginario collettivo. “Berlusconi con la sua televisione commerciale, riempita di tette e culi, ha rincoglionito la nazione. Qua bisogna rimpiangere la vecchia tv del maestro Manzi che ti insegnava a leggere e scrivere”. Giorgione non le manda a dire, sui totem del mangiar sano. La dieta? “Più mangi diverso e di tutto, meglio stai. Il gusto è sempre più ristretto, all’insegna della noia”. Il chilometro zero? “Meglio il chilometro buono, che può essere anche distante, basta saperlo cercare”. Il biologico? “Una mela bacata non è detto sia buona, è bacata. Biologico equivale a dire senza veleno. Non garantisce la bontà. Dopodichè si può fare, ma è necessario creare una rete fra le aziende, perché se accanto a me usano roba chimica, che famo?”. E il magro, la linea? “Il magro magari non sa di un emerito niente, è insipido, è stoppa. Da me, il lardo nell’antipasto c’è sempre. Non è preferibile bere o mangiare un po’ meno ma sempre di qualità, piuttosto che tanto ma intossicandosi? Se i tuoi soldi li spendi per cose di quel tipo e poi stai male, sei un pochino deficiente. Riappropriamoci di una vita, del viver bene, che significa anche mangiar bene, dico io. Significa essere felici. Se tu mi inviti a cena e mi servi robe dozzinali, se io mangio male, m’incazzo come un’ape”.
Dormo fra due guanciali. Certo, potrebbe venire il dubbio che ci marci, sulla figura del cuoco in salopette d’ordinanza che ti corca con ricette ipercaloriche. Lui tira fuori le immagini di quand’era ragazzo: “Vedi? Ero già vecchio da giovane. E guarda bene: avevo già la salopette”. In effetti. “A Linea Verde comunque ora hanno messo uno cicciottello, con la salopette e la barba… Io non sono chef, non sono cuoco: sono un oste. Faccio da mangiare e basta, perché non so fare altro. Quelli che fanno trasmissioni di cucina in tv lavorano tutti su copione, con l’auricolare e a volte pure con il gobbo, perché dietro ci sono gli autori, che scrivono questi trionfi di ovvietà…”. Giorgione, invece, si limita a fare se stesso: “Apro bocca e gli do fiato. Loro fanno cucina-spettacolo, io cerco di arrivare alle persone nella maniera più normale possibile”. Oddio, normale non tanto: mica chiunque ha la sua comunicatività spalmata di doppie strascicate (burrrrro), o la physique du role da gran maestro delle trippe al sugo. “A me importa raccontare delle storie. Quando vado a parlare di un cibo, mi interessa quel cibo e chi lo fa. Non il marchio. Io non ci prendo una lira. Se metti in primo piano la marchetta, finisce tutto a puttane”. Anarchico, solista, inclassificabile: come lo definiamo, Giorgione? “Perché darmi una cornice? È come darmi dei limiti. Io non so cosa sono”. Beh, almeno conviviale sì: di sera, dopo la cura obbligatoria (non c’è menù alla carta) di antipasti-due primi-due secondi-tris di dolci, lo si ode cantare e suonare la chitarra, da buon fan e amico di De Gregori. “Per forza, come si vive senza musica? Da me la convivialità intergenerazionale e interclassista è tutt’uno con i piatti. Mangi quello che dico io, e se sembra poco, chiedete e vi sarà dato. Qua si viene a magnà, se cerchi l’esperienza e la sperimentazione, da me non vieni”. Un omone buono. “Buono io? So’ laido e corrotto”. Addirittura. “Diciamo così: vizi privati e pubbliche virtù”. Altri du spaghi, oste, grazie.