Lo chef Cristiano Tomei concorda nella sostanza con Alessandro Borghese sul fatto che per lavorare in cucina occorra spaccarsi la schiena, ma sul resto (per esempio sull’accusa di mancata voglia di lavorare nei confronti dei giovani) si smarca dal collega (a differenza per esempio di Filippo La Mantia e del vulcanico Gianfranco Vissani).
Per Tomei – intervistato nel suo ristorante da Domenico Arruzzolo per BlackList x MOW – per lavorare in cucina bisogna “fare un sacco di sacrifici e capire una cosa (bisogna essere chiari, perché sennò ci si racconta tante favole): questo lavoro non è un lavoro come gli altri. Se scegli di fare il cuoco, o comunque di lavorare nel mondo della ristorazione, non ci sono orari, non ci sono sabati e domeniche e soprattutto devi imparare a condividere quotidianamente con gli altri il tuo lavoro. E spaccarsi la schiena significa secondo me mettersi in discussione. Si inizia quotidianamente a lavorare e ci vuole tanta tanta umiltà. Questo lavoro è una scelta di vita ben precisa”.
Lo chef sottolinea però che nel suo ristorante (“degli altri non mi interessa parlarne”) ci sono due giorni di riposo, poiché il ristorante resta chiuso due giorni: “Questa è un’operazione che ho maturato negli ultimi anni, grazie anche ad altre persone. Mi sono reso conto sempre più dopo 22 anni che sono aperto che questo è un lavoro che ha bisogno di un team. I ragazzi in cucina, i ragazzi in sala, ma anche il commercialista, nel mio caso il management, la moglie, i figlioli e gli amici. È importantissimo questo. Quindi ai risultati si arriva sicuramente spaccandosi la schiena, ma sui ragazzi di oggi che non hanno voglia di lavorare io non son d’accordo”.
Poi lo smarcamento da Borghese: per Tomei “c’è una crisi di vocazioni, questo è indubbio, ma io non credo che sia un problema dei ragazzi. Credo che sia un problema delle scelte che ha fatto l’Italia negli ultimi anni e ci sia un sistema sbagliato, non è che siano i ragazzi sbagliati. I ragazzi sono anche un po’ opportunisti, com’è giusto che siano (anche se non è giusto, ma è giusto perché sono giovani). Quindi se possono lavorar meno per guadagnare dei soldi, lo fanno. Purtroppo è il sistema che non funziona: non si può sostenere le persone e poi le persone se ne fanno magari a fare il lavoretto così, una tantum. Bisognerebbe incentivare le persone a lavorare seriamente. E quindi tutelandole comunque, tutelandole in maniera totale, a partire dalle scuole fino alla pensione. Quello è importante. La formazione è importante, l’educazione e soprattutto il senso critico. Non è che tutto ciò che dice uno che passa per la televisione o uno come me che parla sia la verità assoluta”.
Tomei fa notare però un aspetto: “I miei sous chef hanno uno 25 e uno 26 anni. Poi ho ragazzi di 20 anni, di 21, di 22. Diciamo che ora i ragazzi si suddividono in due grandi categorie (anche se poi generalizzare è comunque sbagliato): c’è chi veramente è molto preparato e interessato e chi preferisce prendere altre strade. Però io non mi sento di condannare i ragazzi in sé stessi. I giovani in fondo sono il risultato di un sistema che si chiama società”.
Non è che sia una questione anche di soldi? Quanto si guadagna a fare questi lavori e quanto guadagna chef Tomei? “Quanto guadagno non lo dirò mai, ma guadagno pochissimo perché sono un imprenditore. E negli ultimi anni chi ha portato avanti un’impresa è un incosciente e basta, perché siamo stati tutelati pochissimo per quello che abbiamo fatto. Però al contempo è vero che quando ci sono delle crisi ci sono anche delle opportunità, e questo è importantissimo capirlo. Bisogna andare oltre i problemi, perché fare l’imprenditore in Italia è un suicidio”.
Quanto ai sottoposti, lo chef argomenta che “non è che si è pagati poco o si è pagati il giusto. C’è un fatto: una volta si andava a bottega per imparare, e si pagava per andare a bottega per imparare. Quindi è giusto e assolutamente necessario che all’interno di un luogo di lavoro a uno venga riconosciuto quello che fa, però se io prendo una persona e gli insegno qualcosa anche lei deve essere riconoscente. Andare in bottega per imparare il mestiere una volta era una cosa normale. Che tu abbia fatto l’accademia, quindi che tu abbia già investito dei soldi, che tu abbia fatto l’alberghiero, che tu abbia fatto tutto quello che ti pare, però questo non preclude che tu debba riconoscere a chi ti accoglie… almeno ringraziarlo”.
Tornando a Borghese, per Tomei “non è un problema di giovani, è un problema generale. È difficile trovare personale perché probabilmente questo lavoro non soddisfa più”.
C’entra il reddito di cittadinanza? “Non sono nella posizione per poter dire se c’entra il reddito di cittadinanza o qualsiasi altra cosa, però posso assicurare che questo è il risultato di una gestione sbagliata. Da rivedere assolutametne, da tutti i punti di vista. Perché se un imprenditore è vessato da un carico contributivo assurdo è tutto un sistema che è un cane che si morde la coda e non ci si esce mai. Bisogna pensare che questo comparto, quindi assieme anche alla ricezione alberghiera, è un’industria importante per il nostro Paese, che dovrebbe essere tutelata, riconoscere a questa categoria un’importanza, anche di carattere culturale, perché comunque il cibo in Italia è cultura. E magari anche mettere regole su chi fa cibo, non mi alzo la mattina e apro un ristorante. È quello che è successo negli ultimi anni, cioè persone che sono appassionate di cucina che si buttano a capofitto e poi quando provano a lavorare (poveracci, mi dispiace) sono travolti da questo lavoro qui, che è un lavoro difficile e durissimo. Che non è sbattere il piatto sul tavolo e fare la battuta, è un lavoro che come tutti gli altri lavori ha bisogno di tempo”.
Qui sotto l’intervista video completa.