Abbot Joseph Liebling, il titano della critica culinaria del New Yorker, scriveva: “Un buon appetito dà a chi mangia lo spazio di cui ha bisogno”. Si potrebbe aggiungere che un buon appetito dà a chi mangia il gusto di trovare lo spazio di cui ha bisogno. Perché alla fine, tecniche, sperimentazione, originalità, tutto gira intorno al gusto, al senso di una mangiata, cioè alla sensibilità con cui si apprezza ciò che ci attraversa, da capo a, quasi, piedi. Gusto, senso (filosofia) e sensibilità, perdonate l’associazione di idee. Siamo stati a mangiare a Bologna nella sede di Corte de’ Galluzzi di Trattoria da me e le cose sono andate così. In una torre alta trenta metri del XIII secolo Elisa Rusconi accetta l’invito della famiglia Zarri Fini ad aprire uno spin off della trattoria storica di via San Felice che la proprietaria ha ereditato nel 2015 dalla sua famiglia. Ad aprile 2024 si aggiunge dunque questa sede, affidata allo chef Marco Meggiato, formatosi con Massimo Bottura. Si entra nella torre, pochi scalini un corridoio antico, buio. Il personale è gentile, preparato, giovane. Siamo passati all’ora di pranzo per prenotare dal vivo (non si usa più, per questo vale ancora la pena farlo), ci hanno dato un tavolo al centro di una sala gestita ottimizzando la distanza tra i tavoli e le pareti. Da un lato parte della cucina a vista, dall’altro le bottiglie di vino. Fuori dalla finestra un cortile interno, come ce ne sono solo a Bologna, con statue e un rigore botanico d’altri tempi. La vittoria nel 2018 con il locale storico nel programma Quattro ristoranti, condotto da Alessandro Borghese, può essere un boost, ma quel che fa la differenza è l’occhio imprenditoriale e un’estetica in grando di tenere insieme l’onestà intellettuale della vecchia osteria e il desiderio della gente di fare un’esperienza, fine dining potremmo dire, pop ma curata.
Prendiamo un menù completo, con antipasto, primo, secondo e dessert. Vino della casa, come si faceva nelle vecchie osterie, nonostante la carta dei vini interessante. Partiamo con un piattino di salumi, prosciutto e mortadella freschi, del pane casereccio leggermente scuro – forse una farina integrale o ai sette cereali – e le nobilissime crescentine. È questa la cornice della prima vera portata, una degustazione di gelati a base di formaggi: il primo allo squacquerone, molto delicato, il secondo alla robiola, il più fresco, forse il migliore, e l’ultimo al gorgonzola. Tutto con cialde al rosmarino e una confettura di fichi, amara e in grado di sostenere il sapore soprattutto dell’ultima sfera di gelato, la cui consistenza di per sé riesce già a creare un equilibrio con la potenza di fuoco del gorgonzola.
Aspettiamo il giusto, per una cena che durerà circa un’ora e mezza con quattro diverse portate, e arrivano i nostri primi. Dei tagliolini con friggione e squacquerone e degli agnolotti ripieni di vitello brasato e conditi con un ristretto di arrosto e una riduzione di lambrusco. Lo spessore della pasta di questi ultimi dà consistenza a un piatto altrimenti leggerissimo, nonostante la presenza di sapori forti, allacciati tra di loro dalla dolcezza della riduzione. Il primo piatto invece deve scendere a compromessi con un’esigenza recente della nostra cucina, la salsa abbondante. Per questo motivo il friggione, pur mantenendo il sapore tipico intatto, è leggermente meno ristretto di quanto dovrebbe, in modo da condire la pasta. La dolcezza delle cipolle viene spezzata dallo squacquerone presentato a parte in un lato del piatto. In entrambi i casi la pasta manteneva una certa durezza sotto i denti, cottura perfetta.
La regina di Bologna è la cotoletta alla bolognese, rigorosamente di vitello. Mentre la versione con il maiale è ormai diffusa, l’originale di vitello garantisce una masticabilità migliore grazie alla tenerezza della carne nonostante le due cotture imposte dalla ricetta, prima fritta e poi in padella con parmigiano e prosciutto crudo. Ci portano una cotoletta vasta e bassa, grande quanto il piatto. Le proporzioni sono perfette e il prosciutto si sente, nonostante la colata di parmigiano. La panatura buona e morbida, forse leggermente eccessivamente scollata dalla carne. Il sapore impeccabile e la golosità del piatto si sposano con un consiglio: perché non provare, visto che di vitello si tratta, un taglio più spesso della carne?
Beviamo il nostro vino, finiamo l’acqua nella borraccia termica 24bottles personalizzata “Da me” e aspettiamo il dolce, che si rivela essere il piatto più divertente di tutta la cena: “Io sono pop”, un gelato al pop corn con cremoso al cioccolato valrhona 75%, crumble al cacao e composta di pesche (quest’ultima fa la differenza). Siamo su un dessert quasi amaro e tendenzialmente salato che chiude una cena impeccabile. Il prezzo finale, per due persone, è esatto, con tre euro di coperto a testa meritati. La cucina bolognese può avere una seconda vita, non che ne abbia mai avuto bisogno, ma non si sa mai. Qui abbiamo trovato lo spazio di continuare a mangiare e il piacere di farlo. E, per tornare a Liebling, nell’epoca dell’astinenza non c’è niente di più importante. Questo è quanto.