La mia eroina a 30 anni era Becky Bloomwood, protagonista di un best seller di Sophie Kingsella, vestita di rosa con l’ossessione per lo shopping ed il giornalismo. Anche io volevo essere un genio in pink che va al convegno sull’editoria a Miami insieme al capo, il quale ignora la sua fissazione per i vestiti, prima di diventare suo marito. L'ossessione di mio padre invece era che sua figlia imparasse a memoria l'Odissea in tenera età, e per questo mi portò un volume delle gesta di Ulisse in regalo, in seguito all’operazione di tonsillectomia che andava di moda a quei tempi, per distrarmi con le gesta dell'eroe cantate dall'aedo. A sei anni sapevo tutto di tele distrutte nottetempo e sirene tentatrici. E siccome in questa torrida estate romana siamo stufi della società che ci bombarda di cazzate e odiosamente compiace per essere compiaciuta, secondo un pensiero unico che non permette di rischiare di ragionare in autonomia, abbiamo deciso di mollare tutto, tirare fuori la foglia di fico dall’armadio e svernare a Eea, ovvero nel promontorio del Circeo, sulle tracce di quella virtù di saggezza e intraprendenza che ci ispiri a superare i nostri limiti per amor di conoscenza e parole incrociate sotto l’ombrellone.
Secondo la leggenda narrata da Omero, li approdò Odisseo, per gli amici Ulisse, per sollazzarsi in compagnia di tale Circe che avrebbe voluto trasformarlo in suino a causa delle sue fissazioni su quello che oggi chiameremmo patriarcato, visto che era convinta di punire gli uomini per il loro impulso sessuale, ben più forte della loro volontà, fragile come una banderuola. Ovviamente Circe finì poi per innamorarsi del giovine riccioluto figlio di Laerte, il quale, in quanto maschio e giuggiolone, appena toccò le rive di quella terra per la quale ringraziamo gli Dèi o chi per loro, cadde soggiogato come un ciocco dalle lusinghe della maga, invece di tornare immediatamente a casa da sua moglie Penelope. Non è un caso che Dante mise Ulisse nel girone dei fraudolenti, per quanto a noi pesi un gran tanto far pace con il fatto che un eroe che rappresenti virtù e coraggio finisca all’inferno a causa di quel bacchettone del Poeta Vate, che ce lo colloca con l’etichetta bigotta di ‘fraudolento’. Fraudolento per cosa? Per essersi fatto odiare dai nemici, come suggerisce il nome Odisseo, sventando con sagacia i loro invidiosi tranelli vaticinati da Tiresia? Per aver dato consigli ingannevoli al prossimo per salvarsi la pelle? Accetteremmo il vile appellativo di ‘fraudolento’ solo perché il riccioluto reduce dalla guerra di Troia giacque con svariate disinibite puellae, annoverando tra le più celebri - oltre a Circe - la diva Calipso, altra disinibita gnocca che se lo tenne a Ogigia a lungo rimpinzandolo di nettare degli Dèi, impedendogli di fare la fuitina con Nausicaa, figlia del re dei Feaci, che lo vide poi presentarsi ignudo e sporco di salsedine ma non per questo fece la schizzinosa. Infatti lo sedusse facendo il bucato nuda davanti a lui e giocando a palla con le ancelle, per poi abbuffarlo di nettare al lauto banchetto.
Tra le vivande offerte all’eroe glorioso, Nausicaa profferì gustose olive nere al forno, focacce con uvetta e miele, avanzi di carne fredda, pesci marinati, ricotte e fichi secchi con la mandorla, pere e formaggio e si narra anche l’olio buono. A noi ormai più che la palla ci vorrebbe un’autobotte di vino per sedurre un esemplare di maschio, e si che Ulisse sapeva cosa dire alle donne. Altro che i timidi cavalieri barzotti odierni, a cavallo di zoppi ronzini, pieni di pare mentali che se sentono stocaz*o. Con questi nobili pensieri abbiamo raggiunto dunque Terracina, viaggiando anche noi come Ulisse, non in mare ma in macchina, percorrendo la Pontina e non il Tirreno, ma insomma giungendo in due ore alle pendici del Monte di Giove Anxur e davanti a Pisco Montano, queste due meraviglie storiche che testimoniano le imprese dell’Imperatore Traiano, che tagliò la roccia alta 126 metri come fosse burro per non sbattersi a superare il valico del Monte, trasportando le merci sull'antica via Appia. Il richiamo delle sirene ammaliatrici che tentarono il Nostro ci ha sussurrato appena arrivati ‘dimmi che sei a Terracina senza dirmi che sei a Terracina’, mostrandoci dei pomodori baciati dal sole della riviera di Ulisse da strofinare su calde pagnottelle oliate profumate da grosse foglie di basilico, i cannolicchi di quel mare smeraldino ai piedi di Circe addormentata sul promontorio, le telline pescate all’alba dal tellinaro che sonda i mitologici fondali sabbiosi del posto, che nascondono gelosamente i tesori di Dèi e imperatori, protetti da polpi gentili, granchi, tartufi, marmore, fraolini e sconcigli.
A quel punto ci è parso logico metterci alla ricerca del menù di Ulisse, chiedendo a tutti i terracinesi quali fossero le leccornie locali per identificare cosa si mangiasse il nostro durante le peripezie del viaggio di ritorno verso Itaca. Una cosa è certa, presso le sue donne Ulisse trovò cibo per riempirsi la panza a rotta di collo, oltre che per soddisfare le velleità sessuali: certo che il cibo di casa di Nausicaa e di Circe, che sacrificò un agnello e una pecora nera agli Dèi degli inferi per lui, doveva essere migliore di quello offerto dai Lotofagi nel pressi di Gindani, in Tunisia. Omero ci fa sapere che questo strano popolo viveva del frutto del loto, ‘grande all'incirca quanto quello del lentisco, ma per dolcezza assai simile al frutto della palma’. Non si sa per quale ragione costoro si attaccassero al loto - la fame si sa è una brutta bestia - ma il frutto aveva la peculiarità di far perdere la memoria ad Ulisse e ai compari, cosa che rischiò seriamente di far desistere il Probo dal riprendere la via di casa per togliere Penelope dalle rapaci mani dei Proci, sciocchi e ingannati dalla trovata della tela cucita di giorno e scucita di notte della astuta – quanto cornuta - povera donna.
Di gozzoviglio, durante quei dieci anni di ritorno da Troia, ce ne fu parecchio. perfino Polifemo mangiava a quattro ganasce carni di ogni sorta, compagni di Ulisse compresi - giunti sulla sua isola per la curiosità di quel cerca rogna - prima che il ciclope figlio di Poseidone promettesse di mangiare anche lui, quel Nessuno che lo accecò mentre dormiva nella sua grotta, dopo averlo fatto ubriacare di vino come una zucchina. Noi, per restare coerenti con l’episodio, ci siamo prenotati un tavolo presso il miglior ristorante della Piana di Sant’Agostino, lì sulla Riviera di Ulisse, proprio nei pressi della Spelonca che da il nome alla bianca Sperlonga, perla della costa.
È in questa grotta sul mare finemente decorata che l’imperatore Tiberio, originario di queste zone, banchettava con i suoi su un triclinio troneggiante al centro di una grande vasca per la coltura ittica. Certo doveva godersela un bel po’, considerata la bellezza naturale del luogo, ma destino volle che un pezzo di caverna si staccasse cadendo in testa a un servo che ci lasciò le penne. Tiberio si spaventò, prese un fugone fino a Capri, lasciando incustodita la sua villa e la grotta ostruita dai detriti, per non farvi mai più ritorno. Oggi tutto questo è visitabile, compresa l’antica vasca per i pesci e un Ganimede – il mitico giovinetto troiano rapito da Zeus per farne il suo amante, data la sua bellezza - issato all’entrata della spelonca imperiale.
Con un caldo che la metà basta ci siamo fatti una nuotata nelle acque in cui si bagnava er Sor Tiberio, tra i ruderi della sua strepitosa villa tra i flutti, rischiando una congestione, con tutto quello che c’eravamo mangiati. Ma la cosa sbalorditiva è che sino agli anni ’50 la grotta, a causa del crollo, non rivelò agli autoctoni dei vicini Monti Aurunci il suo prezioso contenuto: un gruppo marmoreo raffigurante Ulisse nell’atto di accecare Polifemo dormiente, un busto dell’Eroe e altre statue decorative della grotta, di proprietà di Tiberio, furono ritrovate e ora quel pazzesco tesoro è esposto nel piccolo museo adiacente la spiaggia.
Questa terra che profuma di rovi di more mature, di sughero e gelidi ruscelli che sfociano nel mare di giada, ora placido come l’olio al mattino, poi deserto, silenzioso e brillante a mezzogiorno, poi tiepido nel pomeriggio per diventare scuro e misterioso alla sera a far da culla a Circe addormentata sul promontorio, parla di miti e storia, di antiche divinità greco romane che si nutrivano, come oggi, di tielle di Gaeta ripiene di polpo, di scarola e olive, di saporiti scorfani al tegame, montagne di telline all’aglio e olio da succhiare in costume, minestre antiche di umili erbe, intere griglie di cannolicchi al gratin, spaghetti con gli sconcigli e pecorino, le polpette di pesce, le frittelle di cicinelli, i pomodori al forno, le sarde, alici, le pizzette al pomodoro adorate dagli abitanti e le bombe, signori, le bombe notturne che oggi, in mancanza di un juke box che suoni la nostra canzone, mangiamo un po’malinconicamente, citando Renatino che ricorda le storie d’amore nate sotto all’ombrellone.
Noi alla Riviera di Ulisse tutta, allo scorfano del ristorante Sant’Agostino e al fritto di calamaretti, allo spirito dell’Acheo dagli ingegnosi stratagemmi per non farsi fregare dagli Dèi diamo il massimo, ovvero 5. Davanti alle sagome di Ponza e Palmarola, con lo sguardo verso l’isola di confino Ventotene, abbiamo pensato a Ulisse che si gustava uno scorfano al tegame come il nostro, fiero di aver vissuto degnamente e a morsi, seppur nel periglio, una vita avventurosa e bella, spingendosi oltre ogni limite. Buona estate a tutti, cari lettori di MOW, e che sia ‘più puttana che mai!’-cit.