“Parla del mondo e sarai un provinciale, parla del tuo paese e sarai universale”. È questa frase di Gabriel Marcel, grande filosofo francese del Novecento, che viene in mente leggendo le indicazioni per i programmi didattici 2026/2027 messe a punto dal ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara. Se ci si toglie per un momento dagli occhi le lenti opache dell’ideologia o di una miope appartenenza partitica, si può cogliere forse il vero spirito delle nuove linee guida messe a punto dal ministro per il prossimo biennio scolastico. Non tutto ciò che parla di passato, parla “al” passato. Il passato è quello che siamo, e quello che siamo non può disancorarsi dalla fedeltà a quello che è trascorso, soprattutto e anche nello sforzo di tendere al futuro. Le nuove indicazioni sono state messe a punto da un gruppo di esperti incaricati dal ministero, tra cui figurano Ernesto Galli della Loggia, il latinista Andrea Balbo, il presidente emerito dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini e il violinista Uto Ughi. Queste linee guida, invero, (che da qualche anno hanno preso ormai il posto dei “programmi scolastici”) rappresentano per certi versi il tentativo di resistere a quella mostruosa onda anomala che, a voler essere propriamente (s)corretti, si dovrebbe chiamare non “cultura della cancellazione”, ma “cancellazione della cultura”. E cancellazione della cultura significa cancellazione di quella attività propria della mente e dello spirito che è nutrimento per la vita non solo psichica ma anche fisica di una persona, e poi della comunità cui appartiene. Cultura, in fondo, viene dal verbo latino “colere”, che vuol dire “ coltivare, stare nel campo”. Il recupero di alcune formule didattiche che qualcuno riterrà obsolete (come il tornare a far imparare le poesie a memoria) o una maggiore attenzione alla grammatica della nostra lingua, se da una parte troveranno fanatici pronti a gridare alla restaurazione dell’ancien règime, dall’altra parte potrebbero essere invero l’unico vero deterrente contro la desolante prospettiva di veder crescere giovani che sapranno far di calcolo e mettere a punto algoritmi, ma non sapranno più né a chi né a cosa appartengono, né da dove provengono. La lingua è, in definitiva, la nostra prima madre. Non a caso, se ne parla in questi termini. Viene in soccorso efficacemente un’altra esclamazione, ben triste, di quel certo Ivan Turgenev che in “Padri e Figli” fa dire, pieno di sdegno, a uno dei suoi protagonisti “ E ora forza, vi guarderemo mentre vi agiterete nel vuoto.” Il tema è questo, e occorre guardarlo con estrema attenzione: I ragazzini stanno perdendo la capacità di tenere a mente le storie. E si stanno grandemente riducendo le capacità mnemoniche dei nostri ragazzi, allarme ormai sempre più incalzante lanciato da schiere di psicologi e psichiatri. Non le informazioni, i dati, i concetti, ma le storie. E un bambino che non sa tenere a mente le storie, o riandare con la mente, frugando nella memoria, a delle storie, è un bambino, che poi sarà un giovane e poi adulto, che non possiederà la mappa identitaria della sua civiltà di appartenenza. Fermo restando che le indicazioni nazionali non posseggono alcun valore prescrittivo, limitandosi a fornire una linea generale di orientamento, (cosa che garantisce ai singoli istituti un certo margine di autonomia nel declinarle in concreto all’interno dei vari “programmi”) apprendiamo che tra queste compaiono una serie di novità nell’insegnamento di alcune materie che per Valditara esprimono il “meglio della nostra tradizione”: viene reintrodotto (facoltativamente, opzione che poteva forse rivedersi) il latino alle medie, figura l’indicazione di fare imparare a memoria le poesie agli studenti (Umberto Saba e Giovanni Pascoli e altri) come si faceva in passato, e di concentrare lo studio della storia sui “popoli italici”. Verrà reintrodotto lo studio della letteratura sin dal primo anno, nel tentativo di “imparare a scrivere bene”.
E su questo punto ricordiamo uno splendido intervento di Italo Calvino, sul Corriere della Sera di una domenica del 1978, che suonava più o meno così: “Il diavolo oggi è l'approssimativo. (…) Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell'imprecisione di pensiero e di linguaggio (…) Dico l'approssimativo, non il complicato; quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d'esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l'unico atteggiamento onesto e utile. Riuscire a definire i propri dubbi è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria le cui fondamenta si basano sul vuoto, sulla ripetizione di parole il cui significato si è logorato per il troppo uso.” E la Bibbia, poi, tornare a insegnarla, a leggerla, potrà forse aiutare a sottrarle quello strato di pesantissima polvere e quel senso di inutilità anacronistica con cui una certa sinistra, gretta e ignorante, ha tentato per anni e anni di circondarla. Dentro la Bibbia, oltre alla storia degli apostoli e dei santi, oltre alle parabole del Cristo, esiste il più grande vivaio di storie, di riflessioni filosofiche (e senso dell’epica) che sono stati matrice per tutte le altre storie (della letteratura, della musica, così come pure ispirazione per i più grandi capolavori della pittura e della scultura mondiali) che almeno per una certa parte della nostra tradizione sono venute dopo, e che tenere vicine e tornare a leggere non potrà produrre altro effetto benefico se non quello di risvegliare nei ragazzi il motore generativo di alcune domande: cos'è il destino? Cosa vuol dire nascere? Cosa vuol dire “natura”? Cosa significa morire? Cosa siamo venuti a fare qui? Ci sarà una maggiore attenzione a quel che Valditara ha definito il “nostro patrimonio storico”, cioè sui “popoli italici, le origini e le vicende dell’antica Grecia e di Roma, le loro civiltà, i primi secoli del cristianesimo”. E verrà abolita la “geostoria”, che unisce lo studio della storia a quello della geografia; la storia verrà studiata come una lunga narrazione. Insomma, si potrebbe dire che se il globalismo (economico ed identitario) sfrenato degli ultimi venti anni ha prodotto masse di esseri umani sempre più confusi, disorientati ed inconsistenti, incapaci di domandare alcuna forma di significato o di verità e senso per la propria vita che non fossero le logiche del profitto e gli andamenti del mercato, c’è da sperare che il ritorno ad una sana gelosia nello studio delle proprie origini, dei propri patrimoni linguistici, religiosi, artistici e culturali rifondino lo spirito di nuovi ragazzi italiani che potranno decidere di lanciarsi nel mondo, ma non dimenticandosi di quegli elementi fondamentali della propria nascita che rendono ciascuno di noi non fungibile, non “componibile”, non “customizzabile”, e dunque “unico”. E infine si, anche sacro.