Francesco Costabile è tra i registi più autentici e interessanti del panorama italiano. Noi lo abbiamo intervistato per saperne di più sul suo cinema che scava nelle ombre delle persone e ne racconta, sempre con grande dignità, i problemi, i dolori. Come le ferite delle donne nella sua opera prima Una femmina e nella seconda Familia (di cui vi avevamo parlato qui) che poi sono le stesse lacerazioni di una società che ha fallito. Tra patriarcato e uomini che non sa educare, tra pericoli e traumi inesplorati che vanno di generazione in generazione. Costabile ci ha rivelato che vorrebbe fare un film sulla comunità lgbt+ di cui lui stesso fa parte. “È sempre stato il mio desiderio, raccontare la mia comunità ed il mio vissuto ma in Italia ho sempre percepito una grossa resistenza”, ha detto. La sua urgenza è anche la nostra, quella di voler vedere, da spettatori e spettatrici, ora e per sempre, la nostra vecchia Italia risvegliarsi dalla noia estenuante di storie tutte e uguali e, finalmente, affrontare questi temi (senza ricorrere a noiosi stereotipi). Il Paese ha bisogno di regie e di idee come quelle di Costabile e, forse, dopo questa intervista, qualcuno, se ancora non lo sapeva, se ne renderà conto.
Francesco Costabile. Nel 2024 con il tuo film Familia, Il ragazzo dai pantaloni rosa di Margherita Ferri e L’albero di Sara Petraglia (presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma) abbiamo avuto l’impressione che la nuova generazione di talenti italiani stia riuscendo (anche con grande successo) a portare sul grande schermo storie e temi importanti, sociali. Violenza di genere, bullismo e le dipendenze. Ripartiamo dal cinema per combatterli?
Il cinema è sempre stato uno specchio della società, così come lo è sempre stata l’arte e qualsiasi prodotto umano, non credo sia possibile una forma di comunicazione che sia totalmente disancorata dalla realtà che la produce. Fare film significa andare in profondità, anche in quei territori dove è difficile addentrarsi, prendere per mano lo spettatore e accompagnarlo anche nelle zone più oscure. Credo sia ancora necessario mettere il fruitore in una posizione di scomodità, sorprenderlo, disturbarlo, anche se le piattaforme vanno in tutt’altra direzione.
Riguardo ai prodotti delle piattaforme streaming, hai mai avuto l'impressione che l'inclusività venga spesso ridotta a una mera attuazione del politically correct?
Sicuramente le politiche di inclusività hanno incentivato una narrazione che troppo a lungo è rimasta nell’ombra ma il rischio è che tutto questo risulti una mera concessione e non un reale cambio di paradigma. Come dicevo, l’inclusività va bene solo se è al servizio dell’intrattenimento, se è accomodante, servizievole, rassicurante. Non è in questo modo che si conquista una narrazione, non bastano corpi trans e queer per produrre un racconto profondo del nostro universo.
Sia “Familia” che “Una femmina” si ispirano a storie vere. Da sceneggiatore e regista, pensi che spesso ciò che ci circonda, la quotidianità, le storie autentiche, siano più interessanti della stessa fantasia, di quelle inventate?
La pagina bianca mi spaventa, essere da soli davanti a sé stessi non è semplice. Credo che ci voglia una grande maturità, soprattutto una grande spregiudicatezza per lavorare unicamente sul proprio immaginario. Partire dal reale mi aiuta a trovare il coraggio e mi rende, paradossalmente, più libero di trasfigurare. Se padroneggi bene la tua materia sei libero di farlo, anzi diventa proprio il lavoro più interessante, anche perché la finzione ci aiuta ad andare oltre la superficie del reale.
Essendo una persona non binaria e forte sostenitrice della comunità lgbt+, sogni un cinema che racconti questo mondo con autenticità? Hai mai pensato di realizzare tu stesso un film su questo tema?
È sempre stato il mio desiderio, raccontare la mia comunità e il mio vissuto ma in Italia ho sempre percepito una grossa resistenza, soprattutto se si vogliono raccontare storie e personaggi non accomodanti, in qualche modo sovversivi rispetto ad una società che resta patriarcale e profondamente binaria. La comunità lgbt+ è stata assimilata dalle regole del mercato di intrattenimento. Oggi abbiamo conquistato una nostra visibilità, siamo un pò ovunque ma troppo spesso restiamo una fredda quota che risponde a regole di mercato.
Passiamo a un film che ha trionfato ai Golden Globe (e non solo): Emilia Pérez. Su Rivista Studio, Francesco Gerardi scrive: “Emilia Pérez non cambierà il mondo e neanche il cinema”. È così?
È il prototipo perfetto di tutto ciò che ho appena detto. Basta un viaggio a Bangkok per trasformare un feroce boss dei Narcos in una sorta di santa Maria Goretti paladina dei Desaparecidos. Un mix di politically correct in salsa soap, con qualche canzoncina pop, ed ecco che la transizione diventa un ingrediente perfetto per conquistare l’élite cinematografica di tutto il mondo, un’occasione per lavarsi la coscienza sui palchi dei maggiori festival internazionali. Poco importa se Manitas ha ucciso delle persone, se la sua avvocata conquista un riscatto attraverso dei soldi sporchi, se Emilia ha deciso di mentire per sempre ai suoi figli per poi tornare ad essere un “maschio tossico” quando la sua ex vuole rifarsi una vita. Fare una transizione non significa trasformarsi nell’incredibile Hulk, non si cancella il nostro passato con la chirurgia e gli ormoni. La transizione è un processo che coinvolge anche quello che siamo stati e qualsiasi rimozione è un atto di violenza contro noi stessi. Emilia Pérez ha espiato tutti i suoi peccati diventando una donna. È un’equazione sin troppo semplicistica e anche profondamente offensiva verso le persone transgender. Troppo spesso assistiamo ad un rappresentazione trans che segue questo doppio binario: corpi vittimizzati - e quindi sbagliati - oppure eroine pronte a riscattare le ingiustizie del mondo. Nessuna transizione è sufficiente a definire la specificità di una persona. Un personaggio trans è pur sempre un personaggio, va costruito, non può essere bidimensionale e vittima del politicamente corretto. Una donna trans può essere anche una stronza, può vivere di contraddizioni e in questo Emilia Pérez è una grande occasione mancata, perché il personaggio non fa mai i conti con il proprio passato.