Abbiamo intervistato Antonia Caruso, attivista transfemminista, editrice e fondatrice di Edizioni Minoritarie. Il suo sguardo sul mondo è unico, capace di trasformare ciò che sembra semplice in qualcosa di più profondo, usando parole e immagini per aprire nuovi spazi di riflessione. Un esempio lo è il suo libro Corpi invisibili, “cosa succede quando un corpo viene ignorato, nascosto o ne viene proposta una percezione diversa?”, una domanda che attraversa le pagine e rende questa pubblicazione una delle più interessanti nel parlare di corpi spesso messi ai margini. Anzi, Corpi che contano, per citare il romanzo di Judith Butler, tra le più grandi filosofe post strutturaliste che si sono dedicate al femminismo e al mondo queer. Dentro le espressioni del libro di Antonia e tra le frasi che ci ha consegnato durante la nostra intervista, si sente la voce di una scrittrice/ spettatrice che ha voglia di raccontarci le cose come le osserva, come verità complesse. Ad esempio, su Emilia Pérez, il film di Jacques Audiard di cui vi avevamo già parlato qui, ha le idee chiare: “È moralista perché mette in scena il Bene, Il Male, la Santità, la Famiglia”. E sulla sempiterna (e problematica) rappresentazione stereotipata del mondo trans nei media…
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Antonia Caruso
Antonia Caruso. Nella presentazione del tuo libro Corpi Invisibili, si legge: 'Cosa succede quando un corpo viene ignorato, nascosto o quando ne viene proposta una percezione distorta?'. Questa domanda vorrei porla anche a te: ci racconti questa tua recente avventura?
Corpi invisibili (cioè, che non vogliamo vedere) è un progetto nato dalle persone che hanno realizzato le illustrazioni, Sonno, Chiara Mela e Meo. Loro si sono rivolte a me per scrivere i testi. Abbiamo scelto otto categorie di corpi che la società decide di marginalizzare, nonostante siano essenziali per il suo funzionamento. Anzi vengono marginalizzati proprio perché essenziali. Non c’è economia che regga senza sfruttamento del lavoro. Non c’è famiglia che tenga senza infedeltà e sex work. L’amore romantico è una invenzione recente. Non ci sono giustizia né salute mentale senza la segregazione di chi si discosta da una norma di comportamento (sì, ok c’è anche il codice penale, ma lo sappiamo che contano molto anche gli avvocati). Però ci sono illusioni di giustizia e salute mentale. Il libro non vuole essere l’enciclopedia delle marginalità né proporre teorie o soluzioni perché sarebbe un lavoro davvero enorme. Abbiamo anche preso in considerazione quelle lotte politiche e sociali che hanno portato all’approvazione di leggi. Aborto, manicomi, persone trans. Non perché siano delle conquiste inattaccabili, anzi. Proprio perché non lo sono. Le leggi possono essere aggirate, sfruttate, abolite, aggiustate tramite minuscoli e devastanti comma. E poi, Corpi invisibili, proprio come ti dicevo, è un libro con tantissime illustrazioni.
Nel 2020 è stato presentato al Sundance Film Festival Disclosure, un documentario che esplora le vite delle persone transgender e il loro impatto sulla cultura e sull'industria cinematografica. Da spettatrice, hai notato un cambiamento nella rappresentazione delle persone transgender nei media oppure pensi che siamo ancora lontani da una vera evoluzione, con gli autori che continuano a trattare il tema ricorrendo a stereotipi e luoghi comuni?
Ammetto di non aver avuto grandi aspettative verso Disclosure, invece poi si è rivelato un documentario molto intelligente. Fa una cosa inedita e molto coraggiosa. Lascia parlare le persone trans. Anche se una vera evoluzione ci sarà dal momento in cui le persone trans potranno parlare di cose diverse dalla propria transizione o dall’essere trans, tipo della vita, del mondo e degli organismi che vivono nelle profondità degli oceani. Che sono molto più strani di noi, tra le altre cose. Finché i mezzi di comunicazione erano in mano a poche persone era quasi impossibile farsi sentire. La tendenza è sempre quella, i gruppi editoriali, gli studios, i cinema, vengono acquisiti da chi ha più disponibilità economica. Soprattutto si è capito che i personaggi e le storie trans possono vendere. Sia perché le persone trans sono sempre di più, quindi cresce il bisogno di informazione, intrattenimento e rappresentazione, ma anche perché le storie trans sono spesso perfette per i canoni della narrazione di finzione, proprio da manuale di sceneggiatura. C’è un’eroina o un eroe che deve superare dei conflitti e raggiungere il proprio obiettivo. Le vite fuori dallo schermo invece sono parecchio più incasinate, contraddittorie e mediocri (la mia per prima). Specifico, ci sono più persone trans non perché prima ce ne fossero di meno o perché sia responsabile qualche strana sostanza nell’acqua potabile, ma perché c’è più consapevolezza, leggermente meno stigma e molta più possibilità di sperimentare altre modalità di rapporto col proprio corpo e col proprio gender. C’è più libertà, ma a patto di rientrare in narrazioni confortevoli e patologizzanti. Oppure al contrario ci sono narrazioni fin troppo positive. Le persone trans non sono intrinsecamente rivoluzionarie, ma lo è l’idea di poter superare i confini del sesso assegnato alla nascita se necessario (anche se non è necessario, insomma se si vuole farlo).
A proposito di film, è appena uscito nelle sale Emilia Pérez di Audiard un musical che promette già di vincere tutto anche agli Oscar. In un tuo post Instagram, scrivi, tra i motivi per cui non varrebbe la pena vederlo: “È così moralista che si potrebbe fare un remake in Puglia”. Perché?
È moralista perché mette in scena il Bene, Il Male, la Santità, la Famiglia. È un racconto di redenzione che finisce male semplicemente perché è una redenzione cercata e voluta usando i mezzi sbagliati, con un’idea di giustizia un po’ superficiale. Alla fine le storie di criminalità possono essere ambientate ovunque.
*Attenzione, spoiler sul film Emilia Pérez*
Perché dici che si tratta di un film con un “nemmeno troppo sottile aroma di transfobia”?
Mi riferisco in particolare a un paio di scene. Quella del figlio che dice a Emilia che il suo odore gli ricorda il proprio padre. Può sembrare una scena tenera ma riporta tutto a un dato materiale, come se non si potesse sfuggire dalla propria biologia ed Emilia continuasse a puzzare di maschio. Effettivamente prima della transizione aveva un aspetto piuttosto unto. Non ha detto sai di ascella, ma sai di papà. L’altra è quando sbrocca alla sua ex moglie per dirle che non può portarle via i suoi figli. Quello che emerge non è tanto un’emozione, legittima, ma una modalità aggressiva molto maschile, legata al possesso e all’identità maschile che ha abbandonato. Anche qui è come se dicesse 'puoi farti tutte le plastiche che vuoi ma nel profondo rimani un maschio possessivo'. In contrasto con questa idea magica di transizione dove puoi diventare Marta Marzotto però trans e cambiare il mondo, in un modo assolutamente autoassolutorio. Perché nessuno sa, a parte l’avvocata, il collegamento tra le due persone. Per questo dicevo che l'idea di giustizia appare un po’ cretina. Non si prende una responsabilità reale perché chi fa il bene non è Manitas ma una tizia sconosciuta. Danno profondità e umanità a Emilia però si poggiano su rappresentazioni di genere definite, di conseguenza sono difetti di genere. Ci sono due messaggi contrastanti. Puoi cambiare e non puoi cambiare. Superficialmente sembra che sia il primo, ma se torniamo alle due scene alle quali ho accennato, due scene che coinvolgono la materialità del corpo, dei ricordi e delle emozioni profonde ci dicono il contrario. Poi comunque alla fine, [spoiler], lei muore e questo è l’ennesimo film che finisce male. Anche se [spoilerissimo] poi la fanno santa. Cioè non ce ne facciamo veramente nulla della santità post mortem.
Il fatto che l'attrice protagonista, Karla Sofia Gascón, sia la prima donna trans candidata come miglior attrice (ai Golden Globe, chissà se anche agli Oscar) non è da intendersi come un importante traguardo?
Ma sì, però non è che ora dobbiamo farne una statua.
Su un articolo di Vox (riportato da Forbes) si legge: ‘Anche con i tentativi superficiali di Audiard di validare l'identità di genere di Emilia, questa viene per lo più trattata come una maschera durante tutto il film. I momenti in cui la “maschera” di Emilia si sgretola davanti alla sua famiglia sembrano scene strappate da Tootsie o Mrs. Doubtfire’. Sei d’accordo?
Tutto il film si muove tra melodramma e realismo. Già solo per il fatto che è un musical non si può pretendere un realismo. Tutti i personaggi sono abbastanza superficiali, e va bene così. Il problema si presenta sull’interpretazione simbolica che si dà a questo film.
Cioè?
Se fosse uscito venti/trenta anni fa probabilmente ci sarebbero state meno reazioni negative perché era più comune una rappresentazione meno realistica. In questo momento storico ci si aspetta una coerenza maggiore, non si può fare un film con personaggi trans senza che questi e queste non vengano viste come simbolo di quello che succede fuori dallo schermo. Il rischio è che rimangano personaggi piatti ma con una patina di impegno sociale, oppure che siano piatti ma in senso positivo, cioè personaggi senza alcuna ombra, degli orsetti mattacchioni e molto glamour. Quello che vedo è che nonostante vengano scritte pagine su pagine di teoria, quello che passa e che arriva alle persone e che le può portare a cambiare idea sono sempre le storie. Un personaggio azzeccato vale quanto cento libri. Comunque se si vuole la bidimensionalità va bene, se si vuole la tridimensionalità va bene, ma in questo, come in altri casi, non si possono volere entrambe le cose. Ci vuole veramente della maestria per coniugare stilizzazione e realismo senza che diventi una pessima fiction della Rai. Non sto dicendo che Audiard è un cattivo regista ma solo che su questo tema si poteva fare di meglio. Cioè quando pensi di dare profondità e ti viene fuori il contrario il risultato è kitsch, come i buongiornissimi con le frasi motivazionali.
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