Abbiamo intervistato la poetessa e docente transgender Giovanna Cristina Vivinetto. Autrice delle due raccolte di poesie Dolore minimo e Dove non siamo stati, entrambe permeate dal dolore e dalla bellezza del processo di affermazione dell’io, prima dentro se stessi e poi dentro la società. Una società che, va ricordato, anche nel 2024 è soggiogata dalla costante paura dell'alterità. Ma chi è l’altro da noi? Forse prima ancora di capirlo dovremmo chiederci “chi siamo” e cosa vogliamo davvero noi da questa vita che ci tiene appesi, costretti a dividerci in categorie. Tra queste la più ovvia: quella maschile o femminile. E se invece, d’un tratto decostruissimo queste categorie? Ecco che è la scrittura, come ci ha spiegato la scrittrice siciliana, che viene in nostro soccorso, offrendo una risposta a chi non comprende il disagio di chi vive in uno stato di limbo, con il proprio corpo intrappolato in uno spazio intermedio tra il maschile e il femminile. “Attraverso di essa, posso spiegarti ciò che provo, e tu puoi cercare di capirlo tramite la poesia o un processo di immedesimazione empatica”. Ma a proposito di empatia. Avete notato l'enorme affetto che ha circondato Prisma? La serie, ispirata ai versi di Dolore Minimo della poetessa, sembra purtroppo essere giunta al termine. I desideri, le ambizioni e le paure dei giovani personaggi della serie Amazon Prime non conosceranno una terza stagione. Perché? Secondo gli autori sarebbe una questione di ascolti, buoni, ma probabilmente non abbastanza da portare la piattaforma a considerare un rinnovo. Eppure, Prisma è molto più di una bella serie.
Il tuo corpus poetico Dolore Minimo ha ispirato la serie Prisma. Come hai reagito alla notizia di Amazon Prime di non voler procedere con la realizzazione della terza stagione?
Chiaramente, non è una notizia positiva e ho reagito con dispiacere, perché l'iniziativa di Prisma non solo era innovativa per il panorama seriale italiano, riportando al centro del dibattito tematiche importanti, ma cercava anche di avvicinare i giovani a queste questioni. La serie trattava delle problematiche legate all'identità giovanile, un tema sempre meno esplorato, e per questo mi rattrista che Amazon abbia deciso di non proseguire con il progetto. Immagino che la decisione sia legata a una questione di ascolti.
Hai ascoltato o letto le dichiarazioni dell’autore Ludovico Bessegato?
Sì. Secondo Bessegato la seconda stagione della serie non avrebbe raggiunto quanto Amazon aveva previsto. Eppure mi è sembrato strano, considerando poi che Amazon aveva accolto con grande entusiasmo la prima stagione e, alla sua conclusione, aveva addirittura investito tante risorse per la realizzazione della seconda. Bisogna però riconoscere che viviamo in un'epoca in cui soprattutto i prodotti seriali e filmici vengono creati a un ritmo impressionante, spesso senza lasciare il tempo per far germogliare i significati più profondi che veicolano. Nell'era della velocità, tutto viene consumato rapidamente. Me ne sono accorta subito con la prima stagione di Prisma. Nonostante gli ottimi riscontri iniziali di pubblico, dopo i primi due mesi non se ne parlava più. Ed è un peccato, perché ci sono progetti oltre a questa serie che meriterebbero maggiore attenzione. Vedremo cosa accadrà. Come ha ricordato Ludovico Bessegato, anche la serie Skam doveva concludersi prima, e invece è andata avanti grazie a nuovi fondi. Purtroppo, il denaro è sempre un fattore determinante in questi casi. Sarebbe meglio riuscire a separare i piani creativi da quelli economici, ma mi rendo conto che la questione è complessa.
In effetti è stata realizzata una raccolta firme per richiedere una terza stagione di Prisma.
È vero e non era affatto scontato. È interessante ed emozionante allo stesso tempo che tanti giovani, grazie a Prisma, abbiano trovato il coraggio di esprimersi meglio e di scoprire più a fondo chi sono. Dopotutto, è stata la prima serie tv italiana ad affrontare tematiche di questo tipo.
In Dolore Minimo, scrivi: “Non mi sono mai conosciuta / se non nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa. Così tanto parziale”. Come è stato per te ascoltare e vedere alcune tue parole trasformarsi in corpi e anime nella serie tv Prisma?
È stato meraviglioso, soprattutto considerando che non è usuale che dei versi poetici possano trasformarsi in un prodotto televisivo, per di più rivolto ai più giovani. Partecipare a questo progetto è stato davvero emozionante e bello. Alice Urciuolo e Ludovico Bessegato, partendo dalla mia storia, mi hanno voluta come consulente e successivamente per un cameo all'interno della serie. Dolore Minimo compare nella serie come un "libro galeotto", permettendo al protagonista, Andrea, di comprendere meglio cosa si stia muovendo dentro di lui. Ho trovato questo aspetto meraviglioso, perché credo rappresenti la missione più profonda della letteratura: quella di farci scoprire qualcosa di noi stessi e di unirci. Il fatto che la scrittura lo metta in evidenza rafforza ancora di più questo senso di comunità che ci lega. È ciò che cerco nei libri che leggo: trovare qualcosa che riesca a toccarmi nel profondo, a comunicarmi qualcosa di significativo. Quando si è deciso di realizzare Prisma, partendo dalla mia storia e dal mio libro, non potevo crederci. Non solo perché è raro che ciò accada, ma anche perché partire propri dalla poesia per narrare una storia sul piccolo schermo è straordinario. Prisma ha avvicinato molti giovani al mondo della poesia, e questo mi riempie di gioia.
In Dolore minimo scrivi: “Come in ogni guerra la terra cede, si annullano gli spazi, i punti si allineano tutti uguali, saltano le forme, le comunicazioni. Ciò che resta si raggruma indistinto. Da quando il corpo ha cominciato a mutare, ogni punto è una parete sfondata. Non ci sono più angoli inviolati a contenerti”. È forse questa l’espressione e il significato, esplosivo, vitale, di queerness?
Assolutamente. La queerness include anche l’identità transessuale ed è un termine ombrello che raccoglie tutte le varianti di espressioni di genere. Quando ci si rende conto che la propria identità o la propria espressione di genere non coincide con ciò che la società si aspetta, si prova una sensazione di smarrimento, come se la terra mancasse sotto i piedi, come se tutto fosse improvvisamente sconvolto, quasi come in una guerra. A quel punto, emerge il bisogno di recuperare un senso tra le macerie e di ricostruire qualcosa che ci rappresenti davvero. La queerness è, in un certo senso, una teoria dello scarto. La stessa parola "queer" nasce come un insulto, una deviazione che poi la cultura contemporanea ha trasformato, privandola del suo significato negativo e facendola diventare un'etichetta innocua. Questo riflette l’esperienza di chi si sente in un corpo o in una realtà che non gli appartiene: tentare di riappropriarsene, partendo da qualcosa che inizialmente è percepito come negativo o problematico.
A proposito di rappresentazione. Da poco si è cominciato a parlare della nuova serie su Harry Potter per cui sarà realizzato un casting senza tenere conto di etnia, sesso, disabilità, orientamento sessuale, identità di genere e altro. Scelta che ha attirato numerose critiche. Cosa ne pensi?
Credo fermamente che, quando si presentano opportunità per rendere il mondo culturale, in tutte le sue espressioni, più inclusivo, sia giusto coglierle. Anche se alcune scelte possono sembrarmi assurde, per qualcun altro, che magari è toccato più profondamente, vederle diventare realtà può essere importante. Poi bisogna contestualizzare sempre. I libri che soffrono di una miopia storica, riletti a distanza di tempo, possono mostrare delle falle. Tuttavia, non dobbiamo adottare una logica di “cancel culture”, bannando o eliminando quei libri dal panorama letterario. Ma le iniziative che promuovono processi inclusivi e rileggono in questo senso un po’ la narrazione lo fanno perché rispondono a una reale necessità di oggi di riconoscere e valorizzare le diversità. Sono davvero felice che, col passare del tempo, comprendiamo sempre di più che ciò che consideriamo “diverso” da noi non è davvero strano o minaccioso. Questa consapevolezza ti porta a delle vere connessioni.
Un esempio?
Quest’anno ho notato l'attenzione che la televisione nazionale ha dedicato alle Paralimpiadi: vedere questi atleti al centro di una narrazione quotidiana e non pietistica è stato un passo verso una rappresentazione più autentica e inclusiva della diversità. Lo stesso discorso vale per i diritti. Perché bisogna ampliarli? Perché, se allarghiamo la platea di chi può accedere a questi diritti, stiamo facendo progredire l'umanità. Estendere i diritti a qualcuno non significa toglierli a un altro. E lo stesso principio può essere applicato alla reinterpretazione delle opere letterarie alla luce delle esigenze dei nuovi tempi.
Caso Bridgerton. Anche la serie Netflix ambientata nell'Ottocento è stata bollata come "politicamente corretta" perché presenta delle incongruenze storiche sebbene sia un prodotto tutto sommato di fantasia. Che ne pensi di quesa polemica?
Il terreno della storia è sempre complesso e, come ci ricorda Alessandro Barbero, non è mai del tutto oggettivo, ma filtrato attraverso il punto di vista degli storici. Anacronismi sono sempre esistiti, soprattutto nelle serie e nei prodotti televisivi che cercano di rappresentare epoche passate. Mi sembra una polemica sterile, soprattutto per una serie leggera come quella di cui parliamo. Non l’ho mai vista, lo preciso, ma se è davvero così "rosa" come me la descrivi, creare polemiche mi pare davvero superfluo.
In un tuo recente post Instagram, partendo dal tuo secondo libro, Dove non siamo stati, si legge l’espressione “meridionalismo queer” coniata da Valentina Amenta. Ti va di spiegarci il significato?
Lo studio di Valentina Amenta, che si è dottorata su queste tematiche, affronta la letteratura queer prodotta da autori queer in un contesto meridionale, in particolare in Sicilia. Attraverso una critica teorica e lucida, analizza alcuni casi alla luce di istanze queer legate all’identità e all’espressione del sé. Tra i soggetti trattati, c'è anche Goliarda Sapienza, una scrittrice catanese che ha esplorato temi queer in modo unico e che è stata rivalutata solo di recente. Amenta ha esaminato anche i miei libri, evidenziando il forte legame tra le mie parole e il Sud. Nel mio secondo libro, ad esempio, ho incluso alcune frasi in dialetto, cercando di ricreare quel senso di comunità e appartenenza legato alla storia e al racconto. Questo legame si unisce al queer e all’analisi identitaria, esplorando come quest’identità possa scollarsi da sé per trovare confini più ampi. Dolore minimo, ad esempio, è legato all’affermazione del sé e al passaggio da un corpo a un altro; questa pratica si espande invece in Dove non siamo stati, abbracciando anche il contesto in cui si è sviluppata. Valentina Amenta è stata pioniera nell'affrontare queste tematiche, ma ha anche esaminato altre realtà, come quella culturale femminista e queer del Sud, nota come “Malafimmina”, portando a livello critico le istanze di questa associazione.
Accostare il termine “meridione” a quello “queer” per qualcuno potrebbe essere un ossimoro.
Sì, eppure non lo è affatto. Spesso durante le presentazioni dei miei libri mi veniva chiesto come fosse stato per me affrontare un percorso di affermazione di genere nell’estremo Sud. Molti pensano che sia difficile, mentre io posso dirti che non lo è stato. In Sicilia, a casa mia, ho trovato un contesto aperto e libero che mi ha permesso di affrontare questo processo di affermazione nel modo più sereno possibile. Per questo pregiudizio sono molto felice che oggi ci si soffermi sulla queerness unitamente al Mezzogiorno.
Possiamo chiamarti “poetessa” o preferisci “poetessa transgender”? Quanto è importante per te, se lo è, accentuare questo aspetto?
Il termine "poetessa" potrebbe avere senso in un contesto in cui l'essere transessuale è considerato un dato pacifico. Tuttavia, in una realtà in cui le persone trans vengono discriminate e faticano a trovare il proprio posto nel mondo, mettere l'accento su questo aspetto diventa un atto rivoluzionario di grande importanza. Credo e spero che trasmetta il messaggio: "Guarda, sono transessuale e riesco a produrre opere di qualità".
Ancora in Dolore minimo scrivi: “Mi spiegarono la differenza tra uomo e donna – le caratteristiche elementari del maschio e della femmina. Non mi rivelarono però a quel tempo cosa si trovasse nel mezzo, all’incrocio imprevisto tra i due sessi. Crebbi con una dicotomia nelle ossa nel perenne adattamento all’una o all’altra identità. Solo dieci anni dopo compresi che esattamente nel mezzo – indefinita, sfumata, disforica – c’ero proprio io”. Oggi pensi che le categorie uomo-donna non bastino più per raccontare la società?
È una domanda chiaramente complessa. La poesia che hai citato affronta proprio il problema degli strumenti concettuali: quando la società ti costringe a ragionare in modo limitato, vedendo solo bianco o nero, chi vive un profondo disagio, senza riuscire a riconoscersi, soffre. Tuttavia, nel momento in cui si scopre che esistono altri modi per raccontarsi, la disforia può trasformarsi. Tu mi poni il problema delle categorie nel descrivere la società, e io ti chiedo: "Il racconto della società deve davvero basarsi necessariamente sul posizionamento maschile e femminile?". Non credo che la narrazione abbia bisogno di etichette rigide, ma piuttosto di uno sguardo il più ampio e inclusivo possibile. È vero che le categorie maggiormente rappresentate sono quelle tradizionali, ma oggi noto una proliferazione di istanze diverse. Molte persone che si identificano come transessuali scelgono ad esempio di non seguire un percorso per assumere le caratteristiche del genere opposto, rimanendo così in un "limbo" in cui non sentono il bisogno di etichette. Credo che, partendo da questa molteplicità di identità e necessità, il racconto possa finalmente svincolarsi dall’ingerenza del maschile e del femminile. È vero anche che non stiamo parlando di qualcosa di nuovo: già Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, sosteneva che una mente per pensare in modo preciso debba fondere la parte maschile e femminile, creando qualcosa di nuovo. Io aggiungo però che non possa esistere il maschile o il femminile senza tutte le sfumature che si trovano tra questi due poli. Penso che poi la scrittura possa prescindere dal corpo per trovare un messaggio che vada bene per tutti. Ma come ti ho già detto credo che tutto questo discorso sia davvero complesso.
E se decostruissimo noi le categorie di genere?
Se non avessi affrontato il percorso di affermazione di genere, probabilmente non mi sarei mai posta il problema del binarismo, perché ne sarei rimasta intrappolata. Non è un processo semplice. La scrittura, però, può replicare questo scollamento su un piano metafisico e più elevato, propagando meccanismi di riconoscimento. Attraverso la scrittura, posso spiegarti ciò che provo, e tu puoi cercare di capirlo tramite la poesia o un processo di immedesimazione empatica. La scrittura può spiegare a qualcuno qualcosa che altrimenti faticherebbe a comprendere, perché non l’ha mai vissuta.
Sei una docente di ruolo dal 2022. Che aria si respira nelle scuole italiane su tematiche afferenti a identità di genere e sessuale?
Insegno dal 2020, con ruolo dal 2022, e quello che ho notato è un grande senso di apertura nei ragazzi. Crescono in un contesto molto fluido, immersi nella tecnologia e bombardati da un'infinità di informazioni, alcune delle quali negative, ma è in questo mare magnum che scoprono tante cose. Per esempio, sono molto informati sulle questioni legate all'identità. Ho sentito alcuni di loro parlare di "agender", "asessualità", e lo fanno senza alcun tipo di pregiudizio, come dovrebbe essere. Il problema non sono i ragazzi, ma gli adulti, a partire dalla scuola. Molti dei miei colleghi non sanno nulla di queste tematiche e hanno paura di affrontarle con gli studenti. Ciò che manca è una vera e propria "educazione affettiva e sentimentale", che non esiste nelle scuole. Si tende a delegare tutto ai genitori, che spesso sono ancora meno informati degli insegnanti, creando un circolo vizioso per cui alla fine i ragazzi scoprono queste cose da soli. A volte mi è stato permesso di parlare di questi argomenti, altre volte mi è stato vietato, come se fossero temi “scomodi". Il vero problema è che i docenti non vengono formati su questi aspetti, ma solo su questioni burocratiche. Eppure bisogna tenere a mente che sempre più ragazzi si discostano dall'idea monolitica di genere. Ricordo che nel mio primo anno di insegnamento, in una terza media, alla fine dell'anno due ragazzine avevano iniziato un percorso di transizione per diventare ragazzi. I miei colleghi non sapevano come affrontare la situazione, e quando l'ho scoperto mi sono chiesta perché non avessimo mai trattato l'argomento. Poi, mi sono ritrovata a parlarne direttamente con i genitori a un evento pubblico. Dobbiamo modernizzare il sistema scolastico, e visto che facciamo tanti corsi di aggiornamento, dovremmo includerne alcuni su questi temi.
Ma hai mai capito cosa significa “teoria gender”?
Ho letto che è stata approvata una proposta di legge per vietare la cosiddetta "teoria gender" nelle scuole, ma cosa significa esattamente? Me lo sono chiesta anche io. Se per “teoria gender" si intende fornire ai ragazzi strumenti per comprendere meglio sé stessi, allora non ha alcun senso polemizzare. Il punto è che questa espressione non significa nulla, è solo il frutto della paura, un linguaggio creato per spaventare e allontanare le persone. E torno al discorso di prima. Formare gli adulti è fondamentale per estirpare i pregiudizi, anche tra i più giovani, qualora esistano.