È sempre interessante vedere gli effetti dell'universo Liv Ferracchiati, il performer e drammaturgo che riesce a inscenare sul palcoscenico e nel suo romanzo di formazione, Sarà solo la fine del mondo, che narra le vicende di un bambino durante il delicato processo di transizione di genere, i dubbi e le incertezze su se stessi, sulla propria identità e sessualità problematizzata. Qual è il peso dell’identità oggi? Una volta, la cara amica e favolosa attivista Porpora Marcasciano mi disse che negli anni Settanta: “non esistevano le parole e forse neppure le forme di rappresentazione giuste ad esprimere quello che c’era nel corpo”. Il mondo Lgbtqia+ è stato risucchiato nel corso della storia nel costante tentativo di associare: lettera a problema, parola a idea, grammatica ad opinione quando ancora non esistevano lettere, parole e grammatiche plausibili. Qual è il peso dell’identità oggi? Ferracchiati qualche anno fa ha provato a darci una risposta in Trilogia dell’identità (che porterà in scena nella XIX edizione del Festival dell’Eccellenza al Femminile con la direzione artistica di Consuelo Barilari a Genova) un’opera divisa in tre parti, dove si affronta l’argomento con una ironia e sensibilità unica, caratteristiche che più segnano la poetica dello scrittore umbro. Ecco cosa ci ha raccontato...
Liv Ferracchiati. Nasci a Todi e anche il tuo spettacolo Todi is a small Town in the center of Italy parla della tua città e della vita di provincia. Che rapporto hai con il posto dove sei nato?
Amo molto Todi e quando sto via per un po’ ne sento la mancanza, mi mancano proprio i luoghi concreti, per esempio la piazza principale anche se, allo stesso tempo, scelgo sempre di vivere in città più grandi. Quello che mi porto dietro, forse di negativo, sono gli sguardi. Sguardi non specifici su di me, ma intesi come impossibilità di essere uno tra i tanti, mentre a me, quando cammino per le strade, piace essere semplicemente parte della folla.
Con quale pièce teatrale hai avuto il colpo di fulmine?
A 19 anni ho trovato nella libreria di mio padre un testo contenente la drammaturgia di Beckett, mi appassionai molto, in particolare a Finale di partita.
In Trilogia dell’identità (che porterai quest’anno al festival di Genova) composta da Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat mater e Un esquimese in Amazzonia hai parlato del tanto dibattuto tema dell’identità di genere. Ma l’identità è una sola o è molteplice?
Non saprei, credo molteplice. Quello che a me interessa di questo tema è che nella sua complessità è in realtà tutto molto semplice. Inoltre mi affascina la capacità di individuare le convenzioni e smascherarle, la possibilità di proporre alternative, di creare, lentamente e a fatica, nuovi immaginari. E anche suggerire che si può essere autori di se stessi, senza ripetere pedissequamente i modelli.
Nella già citata trilogia, il filo conduttore è la parola, che in Peter pan guarda sotto le gonne si traduce con “mancanza”, in Stabat Mater “strumento affermativo” e in Un Eschimese in Amazzonia è “metafora di fragilità”. Ora nel 2023, queste parole, questi simboli “giusti” esistono?
Forse ore le parole ci sono e sono diventate proprietà di molti, credo che manchi però la conoscenza precisa dei termini e dei concetti a chi corrispondono. Quando tutti li padroneggeranno allora anche i fatti saranno differenti.
Identità di genere maschile, femminile, e neutra. Cosa ne pensi di chi preferisce “non definirsi” e utilizzare il pronome “they/them”?
Penso che ognuno debba sentirsi libero di determinarsi.
Al centro di numerosi dibattiti in questi anni c’è finito lo schwa. È la soluzione per abbattere il maschile sovraesteso e favorire una maggiore inclusività?
Trovo che sia una proposta intelligente e graficamente molto sensata, dovremmo utilizzarla tutti nella forma scritta.
Anche tu hai collaborato alla stesura di Non si può più dire niente dove si parla di politicamente corretto secondo 14 punti di vista. Cosa significa per te?
Per quanto mi riguarda è principalmente una questione di buon senso. Sono contro gli estremismi su ogni fronte. È evidente che quando si tocca un tema sensibile che ricade sulla vita delle persone bisogna informarsi approfonditamente e valutare se sia il caso di trattarlo o se sia preferibile tacere.
Brignano, Verdone in molti si battono per salvaguardare la comicità dal politicamente corretto…cosa ne pensi? L’ironia fa eccezione?
Non ho seguito ultimamente Brignano e Verdone, credo però che l’ironia sia poetica nella sua visione spesso amara dei fatti dell’esistenza, che sia differente dalla comicità e che spesso affermi per dire il contrario di quello che afferma. Anche qui il punto sta nel distinguere se si tratti davvero di ironia o di becero umorismo. La beffa è che spesso può essere soggettivo.
Un/una regista a cui ti ispiri o ti sei ispirato durante gli anni di studio?
Quando facevo l’università leggere Piscator, Karl Valentin e Brecht aumentava la mia adrenalina.
Molti hanno puntato il dito contro la cinematografia di Xavier Dolan e Ferzan Özpetek dando loro la colpa di essere dei registi “di storie omosessuali”. Ma da quando in qua parlare d’amore, di relazioni, di paure deve per forza avere una identità sessuale o di genere?
Mah…ritengo che queste categorizzazioni siano ridicole e inutili, esistono bei film o brutti film. Dolan, a mio avviso, è un grande talento, non trovo molto altro da aggiungere. Per quanto riguarda me, molti hanno cercato e provano tuttora ad affibiarmi etichette, travisando i contenuti che tratto, anzi c’è una narrazione scorretta e anche pretestuosamente inesatta del mio lavoro, ma me ne difendo ignorando e saltando a piè pari certe letture. Ho una bibliografia di “evitabili” che posso fornire a chi è incuriosito dal teatro.
Hai mai avuto paura che anche le tue opere finissero sotto quello che in molti definiscono “genere lgbtqia+”?
Ad esempio, Sarà solo la fine del mondo, io lo definirei un romanzo di formazione, e basta, per me il protagonista, Guglielmo Leon infatti è un personaggio, punto.