Cos’è stato il lockdown se non una incubatrice emotiva per molti di noi? Il ritorno alla vita ‘normale’, alle responsabilità, al tran tran quotidiano, è stato vissuto (anche per chi scrive) come un trauma. Difficilmente si può assistere a una tale sospensione nella (e dalla) storia come è avvenuto nel 2020. Alcuni, da questa pausa, hanno tratto svariati benefici e Steven Soderbergh (Traffic) immagina come una persona che soffre di agorafobia possa avere sguazzato in casa trasformandola nel suo parco giochi personale.
Angela Childs (Zoë Kravitz) è una analista informatica che risolve i bug per la compagnia che ha prodotto KIMI (un assistente personale dotato di intelligenza artificiale come Amazon Echo). Vive in un loft a Seattle che sembra uscito da The Sims, intrattiene uno pseudo rapporto col vicino del palazzo di fronte, ed espleta tutti gli impegni possibili che contraddistinguono una vita attraverso il web (dal lavoro ai rapporti umani passando per i consulti medici). Sua madre la incoraggia ad affrontare il problema dell’agorafobia plus disturbo ossessivo compulsivo (c’è un trauma pregresso di cui sappiamo poco), ma lei nella routine, complice la pandemia, ha trovato le coordinate di un mondo in cui si sente al sicuro, protetta dalla forma delle giornate che si ripetono sempre uguali. Steven Soderbergh continua il suo interessante discorso tra noi e la tecnologia, quanto i mezzi informatici siano diventati una estensione naturale del nostro corpo, in contrapposizione agli angoli bui di casa, veri territori inesplorati che possono essere inquietanti quanto il Covid.
KIMI è un buon thriller, in particolar modo nella prima parte, che ci permette di riconsiderare in altri termini gli spazi che abitiamo, mettendo in scena una vera trappola per topi in cui Zoë Kravitz regge la pressione psicologica e domina il film per più di 90 minuti. Impariamo a conoscere i ritmi di Angela, a vivere parallelamente a lei la sua condizione di reclusa arrivando a empatizzare con la sua figura, forti degli ultimi due anni di pandemia. Un giorno, tra gli errori da controllare nel sistema, Angela ascolta nelle registrazioni di un utente di KIMI quello che crede uno stupro e il seguente omicidio. Ostracizzata dai suoi stessi capi, Angela prova a risalire all’identità della vittima ascoltata nella registrazione. Scritto da David Koepp e montato dallo stesso Soderbergh, con KIMI torniamo ai ritmi frenetici, ai tempi di lavorazioni veloci e alle atmosfere soffocanti di Unsane.
C’è ovviamente l’Hitchcok de La finestra sul cortile, ci sono le intuizioni da Blow Up, Panic Room (di cui Koepp era lo sceneggiatore) e La conversazione, ma come ammesso dallo stesso regista il malato senso di impotenza, l’atmosfera insalubre e di stagnazione in una situazione sgradevole per la propria mente, è figlio dei film di Roman Polanski come Repulsione o Il coltello nell’acqua.
Se Unsane era stato girato con un iPhone 8 e Mosaic lanciato come una app interattiva, KIMI è uno dei film meno sperimentali di Soderbergh ma è figlio della sua epoca: è perfetto per essere visto sugli smartphone, sul pc o, al massimo, sulla vostra televisione, e non è un caso che negli Stati Uniti sia uscito solo sulla piattaforma HBO Max. Steven Soderbergh, con un’opera godibilissima, coglie perfettamente lo spirito del presente in cui ci si chiede che uso facciano le aziende dei nostri dati, se sia giusto sacrificare la propria privacy in nome della sicurezza (e in questo gli americani sono bravi dopo il Patriot Act), ma non dà una risposta; quella del regista è una visione onesta che accoglie la tecnologia nei suoi lati positivi e negativi senza sconti.
D’altronde, negli ultimi anni, Amazon è stata al centro di controversie perché diversi Echo hanno registrato delle tracce che potrebbero dimostrare più omicidi, ma la società di Jeff Bezos ha sempre opposto resistenza alle richieste dei pubblici ministeri in nome dei diritti dei suoi clienti (ok). KIMI ci ricorda, senza troppe pretese artistiche o intellettuali, quanto siamo (volutamente) dipendenti dalla tecnologia, di come l’intelligenza artificiale possa determinare nel bene e nel male le nostre vite e che, alla fine della storia, l’opzione migliore sia aprire la porta di casa e fare un passo fuori nel mondo, finché esiste.