L’avete voluta l’autofiction? E adesso vi sucate il generale al primo posto: “Il mondo al contrario” del generale Roberto Vannacci è infatti ancora saldo in testa alla classifica Amazon. Una riflessione esclusivamente letteraria bisognerà pur farla, per adesso l’unica recensione pervenuta è quella di Roberto D’Agostino dalle pagine di Dagospia, tutti gli altri hanno avuto soltanto un profluvio di reazioni pavloviane. Dice: non è che tutti quelli che pubblicano un libro, a proprie spese poi, sono “scrittori”. Può essere, ma lo stile del libro è tra il nicciano e lo stirneriano, ossia un procedere retorico, ipnotico, autocompiacente, quelle qualità, ossia, che permettono a Nietzsche e a Stirner di fare il salto da “pensatori” a “scrittori”, come del resto accade in Cioran, in Benn – certo senza ironia, che poi è lo “stile”, gli scritti “seriosi” invece sono tutti uguali (ma ci torneremo): parliamo di qualità letterarie diversissime e però, credo, sia giusto dire che commercialmente (quanto è importante la classifica oggi?) il generale surclassa gli altri: la qualità non è eccelsa, ma vende di più; gli editori tutti saranno d’accordo con me se non sono ipocriti. Mentre il circolo letterario del paesello si sorprende per questo fenomeno, in tanti esclamano: ma finalmente un libro contro il “Pensiero Unico”. Hanno torto marcio entrambe le fazioni contrapposte, come sempre accade.

Hanno torto al circolo: a furia di allevare una scrittura politically correct e woke e autoreferenziale (maledetta autofiction, maledettissima), capita che ci siano fette abbondantissime della società la cui esistenza sorprende gli scrittori, che invece non dovrebbero sorprendersi di niente: “E questi da dove saltano fuori?”. A furia di raccontare il loro tinello si sono dimenticati degli altri. Ohibò. Come quando in America gli scrittori liberal, democrat e anche radical scoprirono che aveva vinto Trump: “Ma chi lo ha votato?”.
Ma ancora di più mi piacciono gli scrittori di destra, i vari Buttafuoco, Borgonovo, Veneziani, che erano lì, un po’ anche esaltati che adesso era il loro turno, un po’ alla pecorina al nastro di partenza: lo starter spara e il generale li fotte tutti! Una goduria.
E sbagliano anche gli acquirenti entusiasti del libro che gridano al Pensiero Unico come si gridava al lupo. Ma quale Pensiero Unico. Mammagari ci fosse un Pensiero Unico: si tratta di un pensiero monotono, monocorde, che di unico ha solo la noia. Che poi sia in qualche maniera vincente nel mondo del pensiero, nel mondo delle lettere – stiamo parlando dell’Italia ovviamente, del tutto ininfluente nel panorama letterario internazionale – è una autoipnosi del tutto amichettistica (sempre grazie al marchese Fulvio Abbate per questo nuovo lemma).
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Ma da quand’è che il cosiddetto “romanzo sociale” ha smesso di fare il suo dovere? Ha smesso raccontarci l’orrore e le storture e la pazzia e la disumanità e la follia e la depravazione e l’imbecillità e la paura e l’angoscia e i meccanismi cerebrali del pazzo di catena pronto a esplodere? Il “romanzo sociale” - ché poi quel “sociale” è l’unico motivo per cui vale la pena di narrare al posto di chiudersi in più edificanti riflessioni di fisica teorica - è relegato alla letteratura considerata da questi geni letterari engagé come “di genere”: nessuno che si renda conto come il romanzo horror e quello western e quello fantascientifico siano i veri paradigmi per leggere questa epoca. Sapete che Cormac McCarthy è diventato famoso in Italia solo dopo il film dei Coen? I nostri letterati se la fanno al cinema e al posto di leggere Letteratura si leggono tra di loro. Jonathan Franzen buttò il suo vecchio televisore Triniton perché gli toglieva tempo alla lettura. I nostri scrittori dovrebbero buttare i libri dei loro amici.
Altrimenti spunta fuori la testolina del generale (come quella di Jack Nicholson dalla porta in “Shining”) e tutti a urlare come delle fighette (tiè).
Ma dov’è l’Eugene Sue de “I misteri di Parigi”: “Questi uomini hanno costumi propri, proprie femmine, linguaggio particolare, parole misteriose, piene di immagini funeste, di metafore che grondano sangue”, oggi gli scrittori ti fanno accomodare al tavolino di design e ti mostrano i piatti Ikea (a sinistra) il barbecue (a destra).
Così le questioni dell’immigrazione, del coviddi, della “sostituzzzzzzione ettinica”, vengono edulcorate, raccontate in maniera didascalica, con le riflessioni e le note a margine e i giudizi imposti dall’autore: impossibile farne un racconto realista, verista. Impossibile persino perculare, perché la commedia, signori miei, è un genere minore, bisogna essere incazzati a bestia: ma se tu fai il/la/* serios* poi arriva il generale che ti fa il serioso e mezzo.
Che poi da noi la “seriosità” ha sempre portato ai balconi, mentre l’unico genere che è riuscito a raccontare il belpaese con un minimo di lucidità è stata la commedia (all’italiana, che discende dal neorealismo, appunto). E infatti in questi giorni sono gli autori cinematografici e gli scrittori di commedie a parlare dell’assurdità del politically correct (Carlo Verdone, Luca Bizzarri contro Selvaggia Lucarelli) e chi non vede la stretta connessione tra questo dibattito e quello sul libro di del generale non ci fa ma senz’altro c’è.
È bellissimo vedere o leggere che un argomento squisitamente letterario, come l’uso delle parole, sia al momento come la fessa in mano ’e ccreature: Donzelli contro Crosetto contro gli scrittori di sinistra e di destra, gente che magari non legge, che non sa, che non capisce, che forse non può capire. Finché qualcuno non riesce a spiegarglielo. Ma chi ci riesce?